La statistica nella lettura dei fenomeni socio-economico climatici

© Harriet Lee Marrion, Fertile Earth
© Harriet Lee Marrion, Fertile Earth
 

Il ruolo della statistica nella lettura dei fenomeni socio-economico climatici

 

In una società complessa e sempre più caratterizzata dall’interazione tra uomo e macchina è inevitabile dover discutere di fenomeni economico-sociali e ambientali utilizzando dati empirici e informazioni raccolti sul campo. È altrettanto inevitabile l’utilizzo di appropriate metodologie di analisi di questi al fine di comprendere il reale contenuto informativo che essi possono fornirci. Nel corso degli ultimi anni, e la pandemia COVID ha dato una ulteriore spinta, sono entrati nel nostro vocabolario giornaliero diversi termini, quali ad esempio Big Data, Intelligenza Artificiale, Data Drive, o Modelli empirici. Tutti termini che in qualche misura hanno a che vedere con la disciplina della Statistica e dell’Analisi dei dati[1].

Anche la società si è modellata di conseguenza: i telegiornali e i media offrono sempre più servizi su queste tematiche, invitando esperti dei settori o realtà connesse; sono nati molti corsi di laurea e master per formare esperti in analisi dei dati in grado di interpretare i fenomeni che ci circondano e tentare di trasformare i fenomeni in opportunità.

In effetti diventa sempre più difficile ottenere visibilità e credibilità se non ci si trova sulla frontiera di queste tematiche. Anche EStà ha colto questa opportunità e ha cercato di espandere le proprie competenze interne sviluppando collaborazioni con il mondo accademico e della ricerca per sviluppare metodologie solide e utili per comprendere con occhi oggettivi, guidati dai dati, la sempre più intricata relazione tra lo sviluppo economico moderno, l’ambiente, il mondo dell’energia e la società in continua evoluzione.

Ma facciamo un passo indietro. Di cosa stiamo parlando davvero? Con quale realtà ci dobbiamo confrontare? Partiamo da una semplice definizione di Statistica: la statistica è una disciplina che ha come fine lo studio quantitativo e qualitativo di un particolare fenomeno collettivo in condizioni di incertezza o non determinismo, cioè di non completa conoscenza di esso o di una sua parte[2].

Già nella definizione sono racchiusi molti concetti fondamentali che è necessario sviluppare. Innanzitutto il termine disciplina indica la Statistica come una materia, un insieme di metodologie e di teorie. Non si tratta di semplici formule o numeri. È un corpus di contenuti che ha una propria filosofia sottostante, delle regole e dei metodi che permettono di interpretare i fenomeni, ossia eventi, che ci circondano. I fenomeni sono collettivi, riguardano una popolazione di interesse (un gruppo di soggetti o oggetti che si vogliono analizzare), che vengono studiati in un contesto di incertezza. Incertezza è tra tutti il vero cuore della definizione, il punto focale. La parola incertezza esprime il concetto di ignoranza (in senso positivo chiaramente) su qualcosa, la mancanza di informazioni totali e solo una conoscenza parziale e limitata del fenomeno. Indica che non tutto è controllabile (appunto, non è deterministico) e che, pur facendo il massimo nei nostri sforzi di modellistica, qualcosa sfuggirà sempre al controllo e potrebbe determinare importanti variazioni tra ciò che si afferma e la realtà. Incertezza e Caso, sono i due concetti che distinguono la Statistica e i suoi adepti, gli Statistici, da altre figure professionali e di ricerca. In un certo senso è come dire che per quanto uno si sforzi nel comprendere un fenomeno, un errore (distanza tra realtà e il nostro risultato) dovrà essere sempre tollerato. Il punto è come rendere questo errore minimo, poco influente, senza però avere la pretesa di eliminarlo o ignorarlo.

Già da qui è chiaro che si tratti di un mondo complesso, e a volte oscuro, che richiede una notevole cura e competenza nell’utilizzo degli strumenti che ci mette a disposizione. E a cosa serve davvero tutto questo? Una risposta semplice, ma non banale potrebbe essere quella di voler raccontare una storia. Prima di raccontarla, però, devo comprendere la storia e i dati ci danno una grande mano.

Torniamo al concetto di Popolazione, perché è da qui che nascono le parti più interessanti. Con la parola popolazione intendiamo qualunque gruppo di soggetti o oggetti accomunati da qualche caratteristica che li rappresenta e di cui siamo interessati ad ottenere delle informazioni. Con popolazione potremmo intendere ad esempio, l’insieme di tutte le imprese italiane operanti in un determinato settore oppure l’insieme di tutti gli studenti italiani in un dato momento. Oppure il numero di membri di una determinata specie di animali in una foresta o il numero totale di alberi di un’area.

Spesso non è possibile raggiungere tutta la popolazione complessiva. Perché troppo grande (quanti alberi ci sono esattamente in Italia? Difficile a dirsi), perché non si conoscono le ‘generalità’, i ‘nomi’ di tutti i membri della popolazione (quante sono esattamente le persone immigrate in Italia nell’ultimo anno? Tra migranti regolari e irregolari non è facile contare). Per questo motivo si utilizza un campione (un sottogruppo, sottoinsieme) della popolazione di interesse, lo si studia e analizza e infine si prova a trarre qualche conclusione sulla popolazione complessiva partendo dai risultati campionari. Questo processo di passaggio dai dati campionari a stime sulla popolazione complessiva prende il nome di Inferenza Statistica. Ovviamente, dal momento che utilizzo solo parte della popolazione e la inserisco nel campione, commetteremo un errore di approssimazione che è tanto più piccolo tanto più il campione è grande e tanto più esso rappresenta la vera natura della popolazione. Facciamo un esempio: se volessi stimare l’altezza media dei cittadini italiani (diciamo circa 60 milioni), dovrei costruire un campione quanto più ampio possibile (diciamo almeno qualche migliaio di persone) e questo campione deve rispettare la distribuzione della popolazione in termini di genere (stessa % di maschi nel campione e nella popolazione), di fascia di età (stessa % di persone tra i 40 e i 50 anni nel campione e nella popolazione) e di area geografica (stessa % di cittadini Lombardi nel campione e nella popolazione). Il campione così ottenuto è rappresentativo (rispetta le caratteristiche chiave, le proprietà) della popolazione. L’errore, come anticipato, esisterà sempre e non potrà essere eliminato. Al più possiamo cercare di ridurlo al minimo con degli appropriati metodi. L’incertezza è la chiave di comprensione dell’inferenza.

Partendo dall’inferenza posso poi fare delle previsioni nel tempo (previsione per serie storiche), nello spazio (previsione con modelli geo-statistici o spaziali) o su soggetti della popolazione non presenti nel campione (previsione cross-sezionale). Vale a dire, usando informazioni osservate posso ottenere delle stime di valori che sono ancora ignoti nel tempo (il meteo di domani), nello spazio (le concentrazioni di inquinanti in una certa città) o su un particolare soggetto (qual è la ricchezza di un soggetto che ha certe caratteristiche socio-economiche). Ancora una volta, anche la previsione dà luogo ad un errore di previsione che va considerato.

Ora, facciamo uno sforzo, e proviamo ad applicare questi concetti nei contesti dello sviluppo economico sostenibile, dell’ambiente, dell’inquinamento o della società. Ciò che EStà sta maturando in questi anni è la convinzione che alcuni fenomeni e trend ambientali ed economici possano essere interpretati e, sotto certe condizioni, previsti. Basti pensare ai cambiamenti climatici: i dati raccontano che le temperature in tutto il globo sono in evoluzione, abbiamo aree del mondo in cui la temperatura si alza e altre in cui si abbassa (lo scioglimenti dei ghiacci polari ha questa assurda contraddizione giudicata senza senso da tanti scettici, ad esempio l’ex presidente degli Stati Uniti, ma che ha solide basi scientifiche); il livello del mare si sta alzando un po’ ovunque; le concentrazioni di inquinanti si stanno riducendo in varie aree d’Italia (la Lombardia ad esempio registra ossidi e particolati in forte diminuzione dal 2014 in avanti). Escludendo eventi esogeni, cioè che non dipendono dalla struttura economico-sociale di un sistema economico, anomali come la pandemia da COVID-19, anche lo stato di salute di una economia può essere analizzata e prevista. Ogni anno gli istituti nazionali e internazionali di statistica ci offrono stime sugli andamenti della ricchezza, sia nel tempo che a livello territoriale e le banche centrali tentano di interpretare l’evoluzione dei prezzi. Non bisogna stancarsi nel dire che, pur quando sono fornite da enti certificati e accreditati (come può essere ISTAT o Banca d’Italia), le stime possono essere errate proprio in virtù di quell’errore ci sempre accompagna gli statistici.

EStà sta impegnando molte risorse e tempo nello studio delle metodologie più appropriate per sviluppare modelli e analisi di qualità che permettano di indirizzare gli interlocutori verso scelte ragionate e basate quanto più possibile su criteri oggettivi. Fermo restando che non sempre sia possibile fornire una indicazione esatta, ma quanto meno sensata e solida nei fondamenti.

 

 

[1] Facciamo attenzione ad un aspetto davvero importante parlando di dati: due concetti connessi non per forza si sovrappongono. Statistica, Machine Learning, Ingegneria del dato, sono termini tra loro connessi e identificano campi e filosofie complementari, ma al tempo stesso contrastanti. Ognuno di questi campi ha visioni diverse e richiedono competenza diverse, ma devono comunicare per una corretta evoluzione della ricerca.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Statistica

L’economia circolare urbana

24 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

© Anna-Kaisa Jormanainen
© Anna-Kaisa Jormanainen
 

L’economia circolare urbana

Le città e le relative aree urbane non possono pensarsi come unità economiche autosufficienti, né questo avrebbe senso per ragioni naturali, economiche e culturali. Da un punto di vista naturale le città non possiedono le superfici agricole e acquatiche sufficienti per assicurarsi l’autonomia; da  un punto di vista economico la produzione di molti beni di origine industriale diviene  più conveniente se collocata al di fuori di aree urbane, costose in termini di affitti e poco funzionali in termini di spazi e di servizi connessi; da un punto di vista culturale gli scambi relativi a beni o servizi di tipo cultural-artistico o artigianale è utile che avvengano anche su scale territoriali ampie per favorire la conoscenza e il confronto arricchente con le diversità.

Una serie di flussi di entrata e di uscita invece è opportuno che seguano principi di circolarità su scala locale, per ragioni sia ambientali, sia sociali ed economiche e per questo la distinzione tra flussi ad orientamento circolare-locale, e flussi che interessano scale territoriali diverse è un’operazione che evita approcci autarchici o semplificati e offre una chiave di lettura verso cui orientare le interpretazioni e le relative scelte politiche.

L’economia circolare a scala locale ha senso laddove la produzione, il riuso e il riciclaggio sono più efficaci economicamente, socialmente e/o ambientalmente rispetto ad opzioni diverse. Questo avviene in una parte dei flussi di approvvigionamento quotidiano, ossia nel campo del cibo e dell’energia.

Mentre già da alcuni anni sono disponibili studi sull’impatto occupazionale dell’economia circolare, ad oggi è invece difficile stimarne l’impatto economico complessivo, in termini di aumento del valore aggiunto prodotto. Occorrerebbe considerare contemporaneamente l’influsso di una serie di variabili, spesso di segno diverso, quali: la diminuzione dell’acquisto di beni nuovi; la produzione di beni a valore aggiunto maggiore; lo sviluppo di servizi di recupero (latu sensu), alcuni dei quali potrebbero portare all’estrazione di sostanze chimiche o allo sviluppo di processi di trattamento dei rifiuti ad alto valore aggiunto, oggi ancora di difficile valutazione; la presenza o meno di barriere di diverso tipo affinché alcune evoluzioni possano avvenire o meno (ad esempio barriere normative sull’utilizzo di beni end of waste).

Sul piano socio-economico un effetto indiretto poco considerato negli studi di tipo macroeconomico è il ventaglio dei vantaggi per il consumatore. Conservare nel tempo le funzioni di uso di un oggetto, progettandolo per questo scopo e poi riparandolo e rigenerandolo, diminuisce la frequenza degli acquisti, abbassando non solo l’impatto ambientale, ma anche i relativi esborsi in denaro.

 

NB. Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio in inglese di M. Lepratti, coordinatore di Està, The circular economy, contenuto nella pubblicazione Training for Education, Learning and Leadership towards a new MEtropolitan Discipline: Inaugural Book.

Di seguito è possibile scaricare la pubblicazone integrale del progetto TELLme, esito di una collaborazione tra università, enti di ricerca e ong in Italia, Spagna, Messico e Argentina che contribuisce allo sviluppo di una “disciplina metropolitana” per comprendere, concettualizzare, progettare e gestire la dimensione metropolitana delle città. Il progetto, pubblicato da CIPPEC, ha coinvolto partner europei e latinoamericani, tra cui: Fondazione Politecnico di Milano, Politecnico di Milano, DOBA Faculty, Universidad de Sevilla, Cnr – Irea, Universidad Autónoma Metropolitana, Universidad de Cuyo e Universidad de Guadalajara.

 

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Webinar con attivisti per il clima

L’inedita sfida economico-sociale e ambientale che stiamo fronteggiando ci impone di trovare soluzioni trasformative che permettano di produrre ricchezza e occupazione di migliore qualità riducendo, al contempo, le emissioni di gas che alterano drammaticamente ambiente e clima.

I risultati del nostro studio, coordinato da @Italian Climate Network –  Il Green Deal conviene, benefici per economia e lavoro in Italia al 2030 – indicano quali sono gli investimenti richiesti e le condizioni per creare valore aggiunto e aumentare una buona occupazione.  Le argomentazioni di questa pubblicazione anticipano da mesi molti dei temi relativi alla transizione ecologica, ultimamente molto citata dai giornali.

Quali sono, quindi, i criteri fondamentali da osservare e i dati da tenere presente per la strutturazione di piani e progettualità di sviluppo sostenibili?  

Sentiamo forte la necessità di comunicare i nostri risultati, per questo motivo abbiamo organizzato, grazie alla collaborazione di @ACRA, un webinar formativo rivolto a ai giovani della Scuola di attivismo di @Mani Tese, all’interno del progetto @FoodWave.

In questa occasione, il 15 marzo, il gruppo di ricercatori che ha partecipato allo studio ha presentato i capisaldi del piano di investimenti del Green Deal europeo, indagando in particolare gli aspetti occupazionali ed economici, oltre che ambientali, che esso comporterà da oggi al 2030.

È stata un’occasione per interloquire con alcuni portavoce di una generazione che, più di altre, si sta assumendo la responsabilità delle proprie azioni e dell’impatto che queste determinano sull’ambiente. I ricercatori di Està hanno così avuto modo di rispondere alle loro domande, condividere osservazioni critiche relative ai temi di interesse dei partecipanti e dimostrarsi un affidabile punto di riferimento per l’approfondimento della materia. 

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Sviluppo e sostenibilità

10 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

@ Luke Best, Updates
@ Luke Best, Updates
 

Il rapporto tra industria e natura

La terra è un pianeta che dall’esterno non riceve alcun apporto di materia e che invece, grazie al sole, riceve continuamente e indefinitamente un’immensa quantità di energia. Al contempo gli abitanti del pianeta terra da due secoli si procurano le principali fonti di energia attraverso la depauperazione progressiva della quantità di materia data. Uno dei meccanismi chiave delle rivoluzioni industriali è celato dietro questo paradosso: pur disponendo di una quantità limitata di materia (fossile) ad alto potenziale inquinante, il mondo 200 anni fa ne ha fatto la base per alimentare un nuovo sistema produttivo a crescita rapidissima e potenzialmente illimitata.

Oggi il paradosso si pone con forza rinnovata. Due secoli di rivoluzione industriale hanno aumentato indefinitamente il potenziale produttivo e comunicativo dell’umanità connettendo i continenti, moltiplicando le rese agricole, stimolando in soli trent’anni (1945-’75) un aumento di ricchezza globale superiore a quello verificatosi nei mille anni precedenti. Negli stessi trent’anni si è avverato appieno quanto preconizzava già nel 1873 il geologo italiano Antonio Stoppani, quando proponeva di definire l’epoca che stava vivendo con il nome di era “antropozoica” a segnare il grande potenziale di dominio che l’essere umano stava acquisendo sul resto della natura. Ma la natura ha chiesto conti che sono diventati sempre più salati, manifestandosi tra l’altro nei disastri umani e ambientali di Seveso in Italia nel 1976, di Love Canal negli Usa nel 1978, di Bhopal in India nel 1984, di Cernobyl in Urss nel 1986, della Exxon Valdez in Alaska nel 1989, dell’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait nel 1991.

Davanti alla contraddizione tra economia e ambiente oggi nuova rivoluzione industriale è chiamata a riconnettere lavoro e natura in un percorso che riconcili dinamiche finora contrastanti, che abbassi il consumo di materia aumentando il contenuto intellettivo dei beni e dei servizi prodotti, che rispetti i limiti climatici senza porre limiti allo sviluppo della ricchezza sociale, che restituisca all’energia illimitata dallo spazio la preminenza sulla materia fossile e limitata utilizzata finora dagli esseri umani.

Ogni rivoluzione economica provoca terremoti, quella futura li provocherà se non avverrà, quelle passate hanno lasciato i loro splendori e i loro dolori:

Andate a dire ai buoi che vadan via/ che quel che han fatto è fatto/ e che oggi si ara prima col trattore/ E piange il cuore a tutti se li guardi/ che dopo che han lavorato mille anni/ adesso se ne vanno a testa bassa / dietro la corda lunga del macello (Tonino Guerra, traduzione dell’autore)

 

Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio di M. Lepratti, coordinatore di Està, Sviluppo e sostenibilità, contenuto nell’ebook di Fondazione Feltrinelli Progresso inconsapevole.

Il calcolo della raccolta differenziata

11 Febbraio 2021

AUTORE

Emanuele Camisana

 

RACCOLTA DIFFERENZIATA IN ITALIA AL 61,35% NEL 2019, MA COSA SI NASCONDE DIETRO QUESTO DATO?

In Italia nel 2019, la raccolta differenziata ha raggiunto il 61,35%. Se il metodo di calcolo non fosse stato modificato nel 2016 tramite Decreto ministeriale la percentuale si fermerebbe solo al 55,56%.

La percentuale di raccolta differenziata dei RSU (rifiuti solidi urbani) ha subito una crescita notevole di anno in anno, ma non tutto è dovuto ad una più attenta differenziazione dei rifiuti.

La principale problematica nell’elaborazione dei dati sulla gestione dei RSU riguarda la corretta computazione dei rifiuti considerati differenziati. Di fatto, se si considerasse solo il dato di andamento della percentuale di raccolta differenziata si incorrerebbe in gravi anomalie, in quanto la computazione negli anni degli RSU ha subito variazioni. Infatti dal 2016 – per effetto del decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare “Linee guida per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani” (pubblicato su Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n. 146 del 24-6-2016) – ISPRA effettua le elaborazioni sulla produzione e raccolta differenziata dei RSU considerando come rifiuti differenziati anche i rifiuti ingombranti (200307), i rifiuti da spazzamento stradale (200303), rifiuti da C&D (costruzione e demolizione, 170107 e 170904) e gli scarti provenienti dalla selezione della multimateriale.

Dal 2016 quindi i dati sono difficilmente confrontabili con quelli precedenti. ESTà ha conseguentemente rielaborato i dati con un unico metodo di calcolo per poter utilizzare un’unica serie storica.

Come si può osservare, lo scostamento tra le due metodologie è notevole. La “percentuale RD registrata” rappresenta la percentuale ufficiale dichiarata da ISPRA, mentre la “percentuale RD con unica misurazione” rappresenta la rielaborazione di ESTà che, a partire dai dati ISPRA, non imputa tra i rifiuti differenziati quelli da pulizia stradale a recupero, gli ingombranti misti a recupero e i rifiuti da C&D. In Italia la percentuale di raccolta differenziata nel 2019 è risultata al 61,35% contro il 55,56% del metodo di calcolo unico utilizzato da ESTà. Il grande balzo in avanti degli ultimi anni non è quindi solo dovuto ad una miglior gestione dei rifiuti, ma principalmente ad una normativa che ne ha variato il calcolo.

La rilevazione di una percentuale di raccolta differenziata inferiore ai dati ufficiali non deve essere letta solo come dato negativo, ma anche come maggiore possibilità di migliorare l’intercettazione delle diverse frazioni merceologiche con conseguenti risparmi in termini di costi ed emissioni di CO2.

 

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Atlante delle risorse ambientali nell’area metropolitana di Dakar

9 Febbraio 2021

AUTORI

Andrea Calori, Giulia Tagliente, Marta Maggi

 

ECOLOGIA PARTECIPATIVA PER UN’AZIONE INCLUSIVA NELL’AREA METROPOLITANA DI DAKAR

L’iniziativa ECOPAS si inserisce nel programma tematico dell’Unione europea “Organizzazioni europee Società civile e Autorità locali 2014-2020″. Ha come scopo il  rafforzamento della capacità organizzativa delle Organizzazioni della società civile (OSC), sulla base di due pilastri fondamentali: la governance e la crescita inclusiva e sostenibile.

Una delle priorità di questo programma tematico è la cooperazione a livello nazionale, che mira a rafforzare il contributo delle OSC ai processi di governance e di sviluppo, in particolare come partner nella promozione dello sviluppo sociale. In Senegal il programma tematico identifica il coinvolgimento dei cittadini nella governance ambientale nella regione di Dakar, attraverso un processo inclusivo di sviluppo delle politiche. Questo permette ai cittadini, soprattutto ai giovani, di partecipare al dialogo e alla difesa di una gestione trasparente delle risorse naturali. Il programma mira anche allo sviluppo economico delle popolazioni attraverso il sostegno e la creazione di micro-imprese verdi (GME) nell’area obiettivo del progetto.

In breve, il progetto ECOPAS contribuisce alla protezione e al ripristino dell’ambiente e degli ecosistemi per migliorare l’ambiente di vita delle popolazioni di Dakar, precisamente nei comuni di Sam Notaire, Ndiarème Limamoulaye, Wakhinane Nimzatt e Yeumbeul Nord. Così, l’obiettivo generale di ECOPAS è quello di coinvolgere i cittadini della regione di Dakar nella governance ambientale e nella crescita inclusiva e sostenibile. L’obiettivo specifico è di rafforzare e conciliare gli sforzi ecologici delle periferie: Sam Notaire, Ndiarème Limamoulaye, Wakhinane Nimzatt e Yeumbeul Nord. Tra gli altri risultati, il progetto ECOPAS prevede una riflessione su una politica territoriale per la protezione delle zone costiere, una transizione agro-ecologica, così come l’uso sostenibile delle risorse naturali acqua, terra e boschi.

L’atlante è stato pensato per essere utilizzato da interlocutori locali con competenze tecniche, ma anche come strumento per stimolare la comprensione da parte di un pubblico non tecnico e supportare il coinvolgimento attivo di attori del territorio fra loro diversi nell’ambito di processi di consultazione e partecipazione.

L’atlante fa una sintesi comunicativa delle informazioni sullo stato degli elementi territoriali e ambientali che sono stati oggetto di studio nel corso del progetto nell’ambito di ricerche specifiche svolte in collaborazione con team senegalesi.  Queste ricerche hanno riguardato la qualità delle acque, l’uso del suolo, la copertura vegetativa, il sistema alimentare e le cosiddette “biotecnologie verdi e bianche”.  Di queste cinque ricerche EStà ha realizzato quella relativa al sistema alimentare.

 

Progetto: CISV, Fones, Ipsia, Sunugal, Hydroaid, UE

 

Testi: I testi contenuti in questa pubblicazione digitale sono stati rielaborati dai rapporti tematici del progetto Ecopas. Le parti senza rilavorazione sono state debitamente citate. La rielaborazione dei testi e la loro integrazione per il progetto di questo atlante sono da attribuire a Giulia Tagliente de EStà, Economia e Sostenibilità

Design grafico, layout, mappe e computer grafica: Giulia Tagliente, EStà – Economia e Sostenibilità

Editing e revisione linguistica: Caroline Bouchat e Diop Toure Nene

Perché migliorare la raccolta differenziata

15 Gennaio 2021

AUTORI

Emanuele Camisana, Francesca Federici, Massimiliano Lepratti

© Sean Loose, The Baker
© Sean Loose, The Baker
 

 

UNA DIFFERENZIAZIONE DEI RIFIUTI PIÙ EFFICIENTE COMPORTA 1 MILIARDO DI RISPARMI ANNUI PER I CITTADINI E 8 MILIONI DI TONNELLATE DI CO2  EQUIVALENTE IN MENO PER L’AMBIENTE.

I benefici che derivano da un’ottimale gestione dei rifiuti sono innumerevoli. Quanto potrebbero risparmiare cittadini in modo diretto? Quanta CO2 equivalente si eviterebbe di disperdere nell’ambiente?

I margini di miglioramento della gestione e raccolta dei rifiuti solidi urbani (RSU) sono ancora notevoli per il futuro prossimo. ESTà ha effettuato una stima puntuale sulla base dei dati ISPRA e dei coefficienti di Legambiente, calcolando per le tre frazioni di FORSU, carta/cartone e plastica i risultati che si potrebbero ottenere qualora si riuscisse ad intercettare la quasi totalità di ciò che ad oggi finisce ancora nell’indifferenziato (o negli ingombranti misti). 

Il risultato è stato determinato fissando come obiettivo da raggiungere, per la differenziazione delle tre frazioni citate, la composizione merceologica dei rifiuti indicata da ISPRA (sul totale dei RSU il 35,5% di organico, il 22,6% di carta/cartone e il 12,9% di imballaggi in plastica) e calcolando la differenza dei costi di gestione e smaltimento delle diverse frazioni rispetto all’indifferenziato. La frazione indifferenziata infatti determina maggiore inquinamento e maggiori costi a causa delle lavorazioni aggiuntive che il rifiuto deve subire e dello smaltimento in discarica o tramite incenerimento. Le altre frazioni, invece, permettono un minor inquinamento grazie al riciclo e risparmio di materia prima vergine, e minori costi anche grazie ai contributi che le aziende coinvolte nelle filiere di plastica e carta conferiscono al sistema CONAI.

 

Andare ad intercettare la parte delle 3 frazioni indicate che ancora non viene differenziata (3,6 milioni di tonnellate di FORSU, 3,4 di carta/cartone e 2,5 di plastica) determinerà un risparmio effettivo per i cittadini di circa 1 miliardo di euro (994,34 milioni) ed una riduzione delle emissioni di CO2 equivalente per circa 8 milioni di tonnellate (7,97 milioni). La corretta gestione di queste 9,55 milioni di tonnellate aggiuntive di rifiuti urbani consentirà anche un aumento occupazionale e di valore aggiunto.

È necessario sottolineare che il modello di analisi tiene conto della situazione attuale. Gli impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti attualmente in funzione non saranno sufficienti a soddisfare le esigenze del nostro paese: andranno costruiti progressivamente sempre più impianti e ampliati quelli esistenti, che con ogni probabilità utilizzeranno livelli tecnologici superiori. L’economia di scala, invece, consentirà l’abbattimento dei costi unitari di trattamento determinando un ulteriore risparmio. Il miglioramento andrà a ripercuotersi anche sugli impianti di smaltimento. Lo smaltimento in discarica dei RSU avrà un flusso minimo, portando a chiusura delle discariche con progressivi piani di ripristino ambientale dei siti. Anche gli impianti di incenerimento e coincenerimento subiranno una riduzione dei conferimenti.

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

29 Dicembre 2020

AUTORI

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano - EStà

© Terence Eduarte, 2016
© Terence Eduarte, 2016
 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 29.12.2020

  

La finalità di preservare la specie umana dai danni di un innalzamento della temperatura superiore a 1,5° (tra il 1880 e il 2100) sembra mettere d’accordo buona parte della pubblicistica nazionale, così come è indubbia la popolarità delle posizioni etiche di figure carismatiche come papa Francesco. Come sempre il problema più complesso non risiede nel campo dei principi generali, ma in quello delle scelte concrete che consentono o meno la realizzazione di quei principi. E su questo conviene provare a mettere un poco di ordine, superando il livello dell’aneddotica per porsi sul piano strutturale. La ricerca “Il green deal conviene” coordinata dall’Italian Climate Network e realizzata dall’associazione Està prova a porre quest’ordine, partendo dall’analisi degli obiettivi europei e nazionali. 

L’UE ha finalmente riconosciuto la necessità di ridurre del 55% tra il 1990 e il 2030 le emissioni dei gas ad effetto climalterante, un esito non scontato fino a poco tempo addietro e, sebbene inferiore a quanto richiesto dal Parlamento europeo (60%), estremamente sfidante per le scelte da compiere nel prossimo decennio. In Italia il piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) prodotto a livello interministeriale a fine 2019, ancor prima di poter essere attuato, risulta inadeguato in quanto costruito su un’ipotesi di riduzione dei gas climalteranti pari a meno del 40%.

La prima scelta concreta da compiere è quindi un adattamento degli obiettivi: l’Italia deve ridurre le sue emissioni di un 15% in più rispetto a quanto si riteneva l’anno scorso, ma questo 15% aggiuntivo si concentra tutto nei dieci anni tra il 2020 e il 2030. Per ottenere l’obiettivo le scelte principali possono concentrarsi sui soli aspetti ambientali, oppure possono combinare virtuosamente aspetti ambientali e aspetti socioeconomici, integrando diminuzione dei gas a effetto climalterante, aumento del valore aggiunto prodotto e aumento dell’occupazione. Questa seconda strada è ovviamente di gran lunga preferibile e su di essa si concentra la ricerca.

Il primo passaggio necessario è il riconoscimento dell’attuale struttura produttiva italiana e della sua dinamica recente. Il sistema produttivo nazionale ha conosciuto negli anni della crisi post 2008 un’involontaria svolta green a forte impatto sociale, dovuta alla chiusura di un alto numero di aziende manifatturiere altamente inquinanti e poco competitive. Nel periodo più vicino (2014-2019) il sistema nel suo complesso sembra aver iniziato una dinamica di disaccoppiamento: le emissioni diminuiscono (seppur di poco) a fronte di un (leggero) aumento di valore aggiunto e occupazione, dimostrando empiricamente come sia possibile diminuire l’impatto sul cambiamento climatico, aumentando allo stesso tempo PIL e occupazione.

Ma come rinforzare questa dinamica assolutamente troppo debole? I risultati di diverse ricerche convergono nel segnalare alcune priorità: il settore dei trasporti italiano risulta aver addirittura aumentato la sua quota di emissioni climalteranti dal 1990 al 2018 e il complesso degli edifici, in grandissima parte privati, ha avuto un eguale comportamento negativo, aggravato da una scarsa efficienza energetica. Entrambi questi settori assommano ciascuno circa un quarto delle attuali quote di produzione di CO2 equivalente; aggiungendo il settore della produzione e distribuzione dell’energia si arriva al 70% delle emissioni italiane.

A queste priorità è importante corrispondere azioni conseguenti e focalizzate sulle politiche industriali che, oltre a prospettare le migliori prestazioni in termini di riduzione delle emissioni, offrano le migliori opportunità in termini di crescita della ricchezza e dell’occupazione.

I sistemi di produzione e di consumo energetico basate sull’energia solare e combinati con una varietà di sistemi di accumulo sono senz’altro una risposta efficace sul piano climatico, ma perché diventino una risorsa per l’intero sistema economico ed occupazionale, non basta installarli. Occorre indirizzare il sistema produttivo del paese, a cominciare dai suoi enti di ricerca e dai suoi grandi attori a partecipazione pubblica, affinché l’Italia sia anche in grado di produrre e vendere gli strumenti tecnologicamente più avanzati per lo sfruttamento dell’intero ciclo del solare, evitando di arricchire solo i produttori di paesi esteri. Discorsi analoghi riguardano i sistemi di trasporto, i sistemi di costruzione e ristrutturazione delle abitazioni, nonché di produzione degli strumenti per lo sfruttamento e l’accumulo dell’energia eolica. Ognuno di questi interventi è l’occasione per creare una filiera nazionale tecnologicamente avanzata, ma le condizioni per farlo sono ciò che una politica industriale seria richiede: concentrarsi su poche grandi priorità ed evitare interventi a pioggia su prospettive di breve respiro (ad esempio quelle legate all’energia fossile altamente inquinante come il gas, necessariamente destinato all’abbandono in tempi non lunghi).

Una politica industriale, per il clima, per la ricchezza e per l’occupazione. L’occasione è ghiotta, la sfida non rinviabile.

 

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano

 

© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

VIDEO: Perchè il Green Deal conviene all’Italia

È possibile produrre più ricchezza, avere più occupazione e ridurre le emissioni di gas climalteranti? EStà, coordinata da Italian Climate Network, ha studiato come rispondere positivamente a queste domande e come l’Italia del 2030, grazie al Green Deal, possa andare verso la neutralità climatica con più ricchezza e più occupati.

L’analisi della realtà produttiva dal 1990 ad oggi ci illustra i cinque problemi che rallentano il raggiungimento degli obiettivi in Italia.

  1. Gli edifici vetusti, non ristrutturati, e di conseguenza ad alto consumo di energia fossile.
  2. I trasporti con moltissime vetture private di cui solo pochissime elettriche.
  3. Il suolo povero di carbonio e con basse capacità di assorbimento.
  4. Le foreste italiane mal gestite e il cui legname poco e mal utilizzato.
  5. Le industrie, e in particolare quelle che investono meno nelle innovazioni, come i trasporti e la produzione di energia.

Come richiesto dal Green Deal, per superare questi problemi entro il 2030 l’Italia dovrà aumentare del 78% gli investimenti previsti dal PNIEC (Piano Nazionale energia e Clima, approvato nel 2019) nei principali settori strategici. Nei trasporti incrementando il numero di veicoli elettrici; nelle energie rinnovabili, per esempio installando un gran numero di pannelli fotovoltaici; e nel settore edilizio con ampi investimenti nelle ristrutturazioni.

Questi sforzi porterebbero ad un incremento del PIL dell’8% e oltre 600.000 occupati stabili in più da qui al 2030.

Ma quali numeri potremmo ottenere se gli investimenti fossero più innovativi?

Se ad esempio attraverso l’agricoltura conservativa aumentassimo la capacità di assorbimento del carbonio nei terreni e con una migliore gestione delle foreste e un migliore utilizzo del legname riducessimo le emissioni di anidride carbonica in dieci anni il PIL salirebbe di un ulteriore 4,1%, conteremmo oltre 400.000 occupati in più e oltre centinaia di milioni di tonnellate di CO2 in meno.

Ma non è finita qui: ai benefici economici e sociali si aggiungerebbero quelli ambientali ed ecologici, la riduzione dell’inquinamento dell’aria e un miglioramento dello stato di salute di suoli e foreste.

Economia circolare del cibo a Milano

Economia circolare del cibo a Milano

15 Ottobre 2020

 

È possibile fare di Milano un laboratorio permanente di politiche integrate rivolte all’economia circolare del cibo? La ricerca Economia circolare del cibo a Milano, condotta dal centro di ricerca Economia e Sostenibilità (ESTà), fornisce gli elementi di base per connettere e valorizzare in ottica circolare le risorse esistenti nel territorio milanese: competenze, driver istituzionali, asset industriali e opportunità. L’obiettivo è sostenere il Comune di Milano e Fondazione Cariplo nel loro ruolo di impulso, supporto e facilitazione di tutte le forme di innovazione sociale, tecnologica e organizzativa che possono concorrere ad attuare gli obiettivi della Food Policy e i principi dell’economia circolare.

Il sistema alimentare (produzione, trasformazione, logistica, distribuzione, consumo, gestione delle eccedenze e dei rifiuti) è pervasivo e rilevante dal punto di vista degli impatti ambientali, sociali ed economici. L’applicazione a tale sistema dei principi dell’economia circolare, minimizza l’estrazione dall’ambiente di risorse finite, riduce i tassi e i tempi di trasformazione della materia in rifiuti, promuove modalità di riciclaggio e upcycling di questi ultimi. Le città in questo senso sono contesti privilegiati, poiché concentrano in uno spazio limitato una grande quantità di rifiuti, vedono la presenza di organizzazioni, tecnologie e saperi che lavorano per garantire diminuzione, recupero o trasformazione di questi rifiuti, combinando avanzamento tecnologico con forme di innovazione sociale che danno origine a nuove economie e nuovi servizi; infine possono promuovere, direttamente o con azioni di advocacy, politiche integrate che governano il sistema del cibo nel suo complesso.

La ricerca analizza tre ambiti che hanno grande impatto sul sistema alimentare: i rifiuti urbani legati al sistema alimentare (in particolare frazione organica dei rifiuti solidi urbani, imballaggi in plastica e in carta-cartone), le eccedenze di cibo fresco destinabili all’alimentazione umana, i fanghi di depurazione delle acque reflue. Per ciascun argomento, fornisce un inquadramento generale (funzionale sia all’individuazione delle questioni principali, sia a soddisfare una finalità divulgativa) e un’analisi specifica sulla città di Milano, analizzando gli attori del sistema connessi con l’interesse pubblico e i principali meccanismi di interazione reciproca; valutando le dimensioni dei flussi fisici, il valore economico del sistema (principalmente per i rifiuti) e i suoi impatti ambientali; segnalando le innovazioni di prodotto e di processo più significative per dimensioni e per potenzialità di miglioramento in futuro. La ricerca è stata condotta intervistando 40 esperti appartenenti sia a soggetti chiave del territorio milanese (A2A Ambiente, AMSA, AMAT, SogeMi, Milano Ristorazione, Politecnico di Milano, CAP, MM, Ufficio Food Policy del Comune di Milano, Recup, Banco Alimentare), sia a  soggetti che operano anche a scala sovralocale (Biorepack, COREPLA, COMIECO, CIC, Assocarta, Assobioplastiche, Novamont), sia a soggetti che si occupano a vario titolo di economia circolare (Materia Rinnovabile, UNISG).

Nella sezione relativa ai rifiuti urbani, l’inquadramento generale del tema presenta l’importanza di una corretta raccolta differenziata (e le strategie per favorirla), in particolare al fine di migliorare i processi di riciclo del rifiuto umido (che portano alla produzione di compost, biogas e biometano) e di produrre nuovi prodotti a valore aggiunto.

A livello di dati si segnala come: la presenza nel rifiuto umido di materiale non compostabile (MNC) generi costi pari a 52 milioni di euro (costi diretti per la separazione del MNC e costi indiretti per lo smaltimento); le modalità di raccolta porta a porta facciano registrare una percentuale di MNC pari al 4,3%, mentre quelle a cassonetto stradale una percentuale pari al 10,1%;  il principale contaminante dell’umido resti il sacchetto di plastica tradizionale (nel quale è vietato conferire l’umido) che costituisce quasi il 27% del totale del MNC. Questi dati sono ancora più rilevanti se si pensa al ruolo della raccolta differenziata dell’umido (principale frazione raccolta) nel raggiungimento dei nuovi obiettivi di riciclo fissati a livello europeo (55% al 2025, 60% al 2030 e 65% al 2035).

La sezione prosegue analizzando: i processi di trattamento della frazione organica (digestione anaerobica e compostaggio) e alcune problematiche legate agli impianti (si segnala in particolare una carenza impiantistica pari a 1 milione di tonnellate, che diventeranno 2 milioni nel 2025, per colmare la quale sarebbe necessario un investimento di 2 miliardi di euro); le relative innovazioni di processo per superare le problematiche di cui sopra (investimenti nelle tecnologie di preselezione, processi di compostaggio ad hoc per gli scarti); le recenti innovazioni di prodotto che consentono di estrarre dal rifiuto umido prodotti a valore aggiunto maggiore rispetto a compost, biogas e biometano (mangimi, prodotti per alimentazione umana, biopesticidi, bioplastiche e biomateriali vari). Nella sezione vengono evidenziati: il grande valore ambientale del compost di qualità (attenuazione dei fenomeni di desertificazione, miglioramento delle caratteristiche fisiche dei terreni, apporto dei principali elementi fertilizzanti) a cui non corrisponde un altrettanto significativo valore di mercato (5-10 euro/tonnellata); la tendenza a spostare i processi di trattamento dell’umido verso la digestione anaerobica (spinta dagli incentivi al biometano) con conseguente diminuzione della produzione di compost.

La ricerca analizza anche i processi di raccolta e trattamento dei rifiuti da imballaggi e food service in plastica e carta, individuando i casi in cui è auspicabile la sostituzione dei prodotti tradizionali (i poliaccoppiati, gli imballaggi altamente inquinati da cibo) con analoghi prodotti in materiali compostabili che possano quindi essere conferiti insieme all’umido.

In questa sezione l’analisi sulla città di Milano vede la ricostruzione dei flussi e della geografia della gestione dei rifiuti urbani, affidata ad AMSA/A2A: Milano è la più grande città europea con il sistema di raccolta porta a porta e la quantità di rifiuto umido pro capite raccolta è tra le più alte registrate nelle capitali europee: nel 2019 il tasso di raccolta differenziata era al 61,8%. L’analisi  relativa a Milano prosegue: presentando le esperienze recenti più significative realizzate all’interno del perimetro urbano (il miglioramento della raccolta dell’umido nei mercati settimanali scoperti2500 tonnellate come target, con un risparmio di 420 tonnellate di CO2 – i progetti di mediazione linguistico culturale per migliorare la raccolta differenziata degli esercizi etnici di ristorazione con somministrazione); stimando fatturato, occupati ed emissioni evitate per singola frazione raccolta, dimostrando che un sistema circolare di gestione dei rifiuti implica fatturati maggiori, un più elevato impatto occupazionale e una diminuzione di emissioni di CO2: per esempio, considerando che la frazione organica del Comune di Milano ha raggiunto nel 2019 le 154.000 tonnellate, si possono stimare 230 unità lavorative, un fatturato di oltre 41 milioni di euro (includendo anche le numerose attività correlate al riciclo, ad esempio il supporto tecnico per la realizzazione e la progettazione di impianti, le attività per la valorizzazione e l’impiego del compost) e 32.000 tonnellate annue di emissioni di CO2 evitate. La sezione si conclude segnalando i punti più deboli del sistema milanese (carenza impiantistica per la frazione umida, destinazione del plasmix ad incenerimento).

 

Nella sezione relativa alla redistribuzione delle eccedenze di cibo fresco in ottica solidaristica, l’inquadramento generale del tema presenta il problema dello spreco alimentare, le motivazioni per le quali è diventato una priorità a livello mondiale, i volumi aggregati e gli impatti (ambientali, sociali, economici, culturali), i problemi definitori e di assenza di standard di misurazione condivisi (che rendono difficile un’azione di contrasto efficace) e alcune soluzioni innovative nella prevenzione e gestione delle eccedenze. L’analisi su Milano si concentra sull’esperienza del primo hub di quartiere (microdistretto veloce di redistribuzione delle eccedenze) che nel 2019 ha recuperato e distribuito 77 tonnellate di cibo edibile a 3.950 persone (di cui 1.480 minori), con un risparmio di 170-240 tonnellate di emissioni di CO2. Tale esperienza ha consentito di ovviare alla crisi del sistema di aiuti alimentari generatasi durante l’emergenza COVID (la maggior parte dei volontari che si occupano di redistribuzione delle eccedenze è costituita da soggetti a rischio perché anziani), permettendo al Comune, in collaborazione con altri soggetti, di organizzare “Milano Aiuta”, un sistema di 10 hub temporanei dislocati nelle zone periferiche della città per la consegna di generi alimentari ai soggetti fragili durante il lockdown. Vengono poi analizzate le esperienze di recupero nei mercati settimanali scoperti (54 tonnellate recuperate da Recup, 21 tonnellate di emissioni di CO2 evitate) e delle due società possedute dal Comune di Milano che si occupano di ristorazione collettiva (Milano Ristorazione, 59 tonnellate di pane e 79 tonnellate di frutta recuperati, per un totale di 83 tonnellate di emissioni di CO2 evitate) e dell’ortomercato (SogeMI, 1.500 tonnellate di ortofrutta recuperate, 590 tonnellate di emissioni di CO2 evitate). 

Nella sezione relativa ai fanghi di depurazione delle acque reflue, l’inquadramento generale del tema presenta: i processi di produzione e trattamento dei fanghi negli impianti di depurazione (i fanghi costituiscono il 90% degli scarti prodotti dal processo di depurazione delle acque); gli impieghi attuali di tali fanghi (ovvero riutilizzo in agricoltura per spandimento, produzione di compost e di ammendanti – l’utilizzo agricolo e la possibilità di estrarre dai fanghi elementi che tornano all’agricoltura, costituiscono i motivi per i quali la ricerca ha preso in considerazione il tema – produzione di biogas, incenerimento e smaltimento in discarica -. NB: a livello nazionale poco meno del 20% dei fanghi viene smaltito in discarica, per il restante 80% la destinazione agricola è l’opzione prevalente); i principali problemi derivanti dall’utilizzo dei fanghi in agricoltura (questioni normative, presenza di inquinanti – metalli pesanti, microinquinanti organici, farmaci e sostanze psicotrope, agenti patogeni – e quindi possibile contaminazione del suolo e delle acque superficiali e sotterranee, maleodorazioni).

L’aumento del volume dei fanghi, i costi di trattamento e smaltimento (che possono incidere fino al 60% del totale di costi della depurazione, sebbene il volume dei fanghi prodotti da un depuratore rappresenti solo una minima parte delle acque in ingresso) e le limitazioni allo smaltimento in discarica, inducono a focalizzarsi sulle possibilità di riutilizzo e recupero dei fanghi (i depuratori come presidi di circolarità): massimizzazione della produzione di biogas, recupero di materia (riutilizzo in agricoltura – diretto per spandimento o indiretto con produzione di compost – per i fanghi di alta qualità,  recupero di specifici prodotti – per esempio nutrienti come il fosforo – elemento fondamentale per l’agricoltura e in via di esaurimento – e l’azoto o chemicals organici come biopolimeri o cellulosa).

In questa sezione l’analisi territoriale si è concentrata sia su Milano che sulla Città Metropolitana. In particolare vengono esaminati: i processi produttivi, le quantità e i destini dei fanghi generati da Metropolitana Milanese (i due depuratori di Milano, 59.000 tonnellate di fanghi tal quale prodotti nel 2019 e destinati all’agricoltura o a vettore energetico, nessun ricorso allo smaltimento in discarica) e CAP Holding (i 40 depuratori della Città Metropolitana, 59.000 tonnellate di fanghi prodotti nel 2018 destinati all’agricoltura – anche con produzione di fertilizzanti – e a vettore energetico, con ricorso marginale allo smaltimento in discarica); le innovazioni in termini di recupero di materia ed energia e le tendenze future: per MM la ricerca di soluzioni tecnologiche che consentano di inserire un processo di digestione anaerobica nella linea fanghi di entrambi i depuratori senza erigere cupole, la sperimentazione della produzione di fertilizzanti in linea nel depuratore di Nosedo e la sperimentazione di modalità diverse di combustione anche per il recupero di fosforo dalle ceneri; per CAP la completa uscita dallo smaltimento in discarica e dallo spandimento in agricoltura, tramite conferimento del 25% dei fanghi (quelli «alta qualità») in agricoltura come fertilizzanti, riduzione del volume dei fanghi attraverso la produzione di biogas (e biometano) e incenerimento per un recupero di fosforo dalle ceneri.