Atlante delle risorse ambientali nell’area metropolitana di Dakar

9 Febbraio 2021

AUTORI

Andrea Calori, Giulia Tagliente, Marta Maggi

 

ECOLOGIA PARTECIPATIVA PER UN’AZIONE INCLUSIVA NELL’AREA METROPOLITANA DI DAKAR

L’iniziativa ECOPAS si inserisce nel programma tematico dell’Unione europea “Organizzazioni europee Società civile e Autorità locali 2014-2020″. Ha come scopo il  rafforzamento della capacità organizzativa delle Organizzazioni della società civile (OSC), sulla base di due pilastri fondamentali: la governance e la crescita inclusiva e sostenibile.

Una delle priorità di questo programma tematico è la cooperazione a livello nazionale, che mira a rafforzare il contributo delle OSC ai processi di governance e di sviluppo, in particolare come partner nella promozione dello sviluppo sociale. In Senegal il programma tematico identifica il coinvolgimento dei cittadini nella governance ambientale nella regione di Dakar, attraverso un processo inclusivo di sviluppo delle politiche. Questo permette ai cittadini, soprattutto ai giovani, di partecipare al dialogo e alla difesa di una gestione trasparente delle risorse naturali. Il programma mira anche allo sviluppo economico delle popolazioni attraverso il sostegno e la creazione di micro-imprese verdi (GME) nell’area obiettivo del progetto.

In breve, il progetto ECOPAS contribuisce alla protezione e al ripristino dell’ambiente e degli ecosistemi per migliorare l’ambiente di vita delle popolazioni di Dakar, precisamente nei comuni di Sam Notaire, Ndiarème Limamoulaye, Wakhinane Nimzatt e Yeumbeul Nord. Così, l’obiettivo generale di ECOPAS è quello di coinvolgere i cittadini della regione di Dakar nella governance ambientale e nella crescita inclusiva e sostenibile. L’obiettivo specifico è di rafforzare e conciliare gli sforzi ecologici delle periferie: Sam Notaire, Ndiarème Limamoulaye, Wakhinane Nimzatt e Yeumbeul Nord. Tra gli altri risultati, il progetto ECOPAS prevede una riflessione su una politica territoriale per la protezione delle zone costiere, una transizione agro-ecologica, così come l’uso sostenibile delle risorse naturali acqua, terra e boschi.

L’atlante è stato pensato per essere utilizzato da interlocutori locali con competenze tecniche, ma anche come strumento per stimolare la comprensione da parte di un pubblico non tecnico e supportare il coinvolgimento attivo di attori del territorio fra loro diversi nell’ambito di processi di consultazione e partecipazione.

L’atlante fa una sintesi comunicativa delle informazioni sullo stato degli elementi territoriali e ambientali che sono stati oggetto di studio nel corso del progetto nell’ambito di ricerche specifiche svolte in collaborazione con team senegalesi.  Queste ricerche hanno riguardato la qualità delle acque, l’uso del suolo, la copertura vegetativa, il sistema alimentare e le cosiddette “biotecnologie verdi e bianche”.  Di queste cinque ricerche EStà ha realizzato quella relativa al sistema alimentare.

Progetto: CISV, Fones, Ipsia, Sunugal, Hydroaid, UE

Testi: I testi contenuti in questa pubblicazione digitale sono stati rielaborati dai rapporti tematici del progetto Ecopas. Le parti senza rilavorazione sono state debitamente citate. La rielaborazione dei testi e la loro integrazione per il progetto di questo atlante sono da attribuire a Giulia Tagliente de EStà, Economia e Sostenibilità

Design grafico, layout, mappe e computer grafica: Giulia Tagliente, EStà – Economia e Sostenibilità

Editing e revisione linguistica: Caroline Bouchat e Diop Toure Nene

Perché migliorare la raccolta differenziata

15 Gennaio 2021

AUTORI

Emanuele Camisana, Francesca Federici, Massimiliano Lepratti

© Sean Loose, The Baker
© Sean Loose, The Baker
 

 

UNA DIFFERENZIAZIONE DEI RIFIUTI PIÙ EFFICIENTE COMPORTA 1 MILIARDO DI RISPARMI ANNUI PER I CITTADINI E 8 MILIONI DI TONNELLATE DI CO2  EQUIVALENTE IN MENO PER L’AMBIENTE.

I benefici che derivano da un’ottimale gestione dei rifiuti sono innumerevoli. Quanto potrebbero risparmiare cittadini in modo diretto? Quanta CO2 equivalente si eviterebbe di disperdere nell’ambiente?

I margini di miglioramento della gestione e raccolta dei rifiuti solidi urbani (RSU) sono ancora notevoli per il futuro prossimo. ESTà ha effettuato una stima puntuale sulla base dei dati ISPRA e dei coefficienti di Legambiente, calcolando per le tre frazioni di FORSU, carta/cartone e plastica i risultati che si potrebbero ottenere qualora si riuscisse ad intercettare la quasi totalità di ciò che ad oggi finisce ancora nell’indifferenziato (o negli ingombranti misti). 

Il risultato è stato determinato fissando come obiettivo da raggiungere, per la differenziazione delle tre frazioni citate, la composizione merceologica dei rifiuti indicata da ISPRA (sul totale dei RSU il 35,5% di organico, il 22,6% di carta/cartone e il 12,9% di imballaggi in plastica) e calcolando la differenza dei costi di gestione e smaltimento delle diverse frazioni rispetto all’indifferenziato. La frazione indifferenziata infatti determina maggiore inquinamento e maggiori costi a causa delle lavorazioni aggiuntive che il rifiuto deve subire e dello smaltimento in discarica o tramite incenerimento. Le altre frazioni, invece, permettono un minor inquinamento grazie al riciclo e risparmio di materia prima vergine, e minori costi anche grazie ai contributi che le aziende coinvolte nelle filiere di plastica e carta conferiscono al sistema CONAI.

 

Andare ad intercettare la parte delle 3 frazioni indicate che ancora non viene differenziata (3,6 milioni di tonnellate di FORSU, 3,4 di carta/cartone e 2,5 di plastica) determinerà un risparmio effettivo per i cittadini di circa 1 miliardo di euro (994,34 milioni) ed una riduzione delle emissioni di CO2 equivalente per circa 8 milioni di tonnellate (7,97 milioni). La corretta gestione di queste 9,55 milioni di tonnellate aggiuntive di rifiuti urbani consentirà anche un aumento occupazionale e di valore aggiunto.

È necessario sottolineare che il modello di analisi tiene conto della situazione attuale. Gli impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti attualmente in funzione non saranno sufficienti a soddisfare le esigenze del nostro paese: andranno costruiti progressivamente sempre più impianti e ampliati quelli esistenti, che con ogni probabilità utilizzeranno livelli tecnologici superiori. L’economia di scala, invece, consentirà l’abbattimento dei costi unitari di trattamento determinando un ulteriore risparmio. Il miglioramento andrà a ripercuotersi anche sugli impianti di smaltimento. Lo smaltimento in discarica dei RSU avrà un flusso minimo, portando a chiusura delle discariche con progressivi piani di ripristino ambientale dei siti. Anche gli impianti di incenerimento e coincenerimento subiranno una riduzione dei conferimenti.

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

29 Dicembre 2020

AUTORI

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano - EStà

© Terence Eduarte, 2016
© Terence Eduarte, 2016
 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 29.12.2020

  

La finalità di preservare la specie umana dai danni di un innalzamento della temperatura superiore a 1,5° (tra il 1880 e il 2100) sembra mettere d’accordo buona parte della pubblicistica nazionale, così come è indubbia la popolarità delle posizioni etiche di figure carismatiche come papa Francesco. Come sempre il problema più complesso non risiede nel campo dei principi generali, ma in quello delle scelte concrete che consentono o meno la realizzazione di quei principi. E su questo conviene provare a mettere un poco di ordine, superando il livello dell’aneddotica per porsi sul piano strutturale. La ricerca “Il green deal conviene” coordinata dall’Italian Climate Network e realizzata dall’associazione Està prova a porre quest’ordine, partendo dall’analisi degli obiettivi europei e nazionali. 

L’UE ha finalmente riconosciuto la necessità di ridurre del 55% tra il 1990 e il 2030 le emissioni dei gas ad effetto climalterante, un esito non scontato fino a poco tempo addietro e, sebbene inferiore a quanto richiesto dal Parlamento europeo (60%), estremamente sfidante per le scelte da compiere nel prossimo decennio. In Italia il piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) prodotto a livello interministeriale a fine 2019, ancor prima di poter essere attuato, risulta inadeguato in quanto costruito su un’ipotesi di riduzione dei gas climalteranti pari a meno del 40%.

La prima scelta concreta da compiere è quindi un adattamento degli obiettivi: l’Italia deve ridurre le sue emissioni di un 15% in più rispetto a quanto si riteneva l’anno scorso, ma questo 15% aggiuntivo si concentra tutto nei dieci anni tra il 2020 e il 2030. Per ottenere l’obiettivo le scelte principali possono concentrarsi sui soli aspetti ambientali, oppure possono combinare virtuosamente aspetti ambientali e aspetti socioeconomici, integrando diminuzione dei gas a effetto climalterante, aumento del valore aggiunto prodotto e aumento dell’occupazione. Questa seconda strada è ovviamente di gran lunga preferibile e su di essa si concentra la ricerca.

Il primo passaggio necessario è il riconoscimento dell’attuale struttura produttiva italiana e della sua dinamica recente. Il sistema produttivo nazionale ha conosciuto negli anni della crisi post 2008 un’involontaria svolta green a forte impatto sociale, dovuta alla chiusura di un alto numero di aziende manifatturiere altamente inquinanti e poco competitive. Nel periodo più vicino (2014-2019) il sistema nel suo complesso sembra aver iniziato una dinamica di disaccoppiamento: le emissioni diminuiscono (seppur di poco) a fronte di un (leggero) aumento di valore aggiunto e occupazione, dimostrando empiricamente come sia possibile diminuire l’impatto sul cambiamento climatico, aumentando allo stesso tempo PIL e occupazione.

Ma come rinforzare questa dinamica assolutamente troppo debole? I risultati di diverse ricerche convergono nel segnalare alcune priorità: il settore dei trasporti italiano risulta aver addirittura aumentato la sua quota di emissioni climalteranti dal 1990 al 2018 e il complesso degli edifici, in grandissima parte privati, ha avuto un eguale comportamento negativo, aggravato da una scarsa efficienza energetica. Entrambi questi settori assommano ciascuno circa un quarto delle attuali quote di produzione di CO2 equivalente; aggiungendo il settore della produzione e distribuzione dell’energia si arriva al 70% delle emissioni italiane.

A queste priorità è importante corrispondere azioni conseguenti e focalizzate sulle politiche industriali che, oltre a prospettare le migliori prestazioni in termini di riduzione delle emissioni, offrano le migliori opportunità in termini di crescita della ricchezza e dell’occupazione.

I sistemi di produzione e di consumo energetico basate sull’energia solare e combinati con una varietà di sistemi di accumulo sono senz’altro una risposta efficace sul piano climatico, ma perché diventino una risorsa per l’intero sistema economico ed occupazionale, non basta installarli. Occorre indirizzare il sistema produttivo del paese, a cominciare dai suoi enti di ricerca e dai suoi grandi attori a partecipazione pubblica, affinché l’Italia sia anche in grado di produrre e vendere gli strumenti tecnologicamente più avanzati per lo sfruttamento dell’intero ciclo del solare, evitando di arricchire solo i produttori di paesi esteri. Discorsi analoghi riguardano i sistemi di trasporto, i sistemi di costruzione e ristrutturazione delle abitazioni, nonché di produzione degli strumenti per lo sfruttamento e l’accumulo dell’energia eolica. Ognuno di questi interventi è l’occasione per creare una filiera nazionale tecnologicamente avanzata, ma le condizioni per farlo sono ciò che una politica industriale seria richiede: concentrarsi su poche grandi priorità ed evitare interventi a pioggia su prospettive di breve respiro (ad esempio quelle legate all’energia fossile altamente inquinante come il gas, necessariamente destinato all’abbandono in tempi non lunghi).

Una politica industriale, per il clima, per la ricchezza e per l’occupazione. L’occasione è ghiotta, la sfida non rinviabile.

 

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano

 

© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Global minds

© AQ studio (Adam Quest), 2014

Global minds

5 Gennaio 2017

© AQ studio (Adam Quest), 2014
© AQ studio (Adam Quest), 2014
 
La realtà in cui siamo immersi è complessa e fonde in un tutto indistinto elementi temporali, spaziali, materiali, cromatici, quantitativi, acustici, olfattivi… Per renderla più comprensibile la mente umana la analizza, ossia la separa in categorie più circoscritte. Questo procedimento è alla base di molti concetti che gli esseri umani usano quotidianamente, quali i colori, i numeri, le grandezze etc. Lo stesso procedimento è all’origine delle cosiddette “discipline” con molte delle quali ciascuno tra noi familiarizza a partire dalla scuola e dall’insegnamento separato in ore di “storia” , di “geografia” , di “letteratura”, di “economia” etc. Le categorie sono pertanto indispensabili per rendere la realtà comprensibile alle nostre menti, ma la loro definizione e il loro uso implicano un’analisi critica intorno a tre grosse questioni. La prima è la necessità di riconoscerne il carattere non oggettivo. Le discipline si sforzano di trovare una propria base condivisa (l’epistemologia), ma si tratta di uno sforzo in continuo aggiornamento, non di un risultato. Nella categoria “colori” vi sono popoli che chiamano “bianco” quello che altri popoli suddividono in decine di altre categorie. Nella categoria “tempi verbali” vi sono popoli che usano una o due forme di tempo presente, altri che ne usano decine. La seconda questione, è collegata con la prima. Ogni cultura sviluppa alcune categorie di pensiero e le radica al punto tale che i singoli perdono di vista il carattere di costruzione artificiale e tendono a considerarle naturali. Un esempio tra tutti è la tendenza disgiuntiva del nostro modo di ragionare, tendenza radicatasi nel cosiddetto “Occidente” a partire dagli ultimi tre-quattro secoli. Dalla diffusione del razionalismo cartesiano in poi le menti di chi cresce in questa parte del mondo tendono automaticamente a pensare in modo “separante”. L’aut/aut, ossia il pensare che una cosa o è in un modo o altrimenti deve essere in un altro, è un tratto del nostro modo di ragionare. In realtà molto spesso caratteristiche contraddittorie o addirittura opposte possono convivere nello stesso oggetto (o soggetto), così come insegnano i grandi pensatori orientali: ciascuno tra noi può essere razionale ed emotivo, affettuoso o collerico in funzione della specifica situazione in cui si trova. Il terzo problema è il più grave ed è a sua volta collegato con il precedente. Se la nostra mente per conoscere la realtà ha bisogno di separarla in categorie, la realtà nella sua essenza è un tutto unico e inseparabile. Pertanto, dopo aver affrontato il momento dell’analisi, la nostra mente dovrebbe concludere il processo cognitivo con il momento della sintesi, attraverso il quale ridare alla realtà il suo aspetto effettivo. Ma questo solitamente non avviene. Poche persone vengono educate a pensare sia in modo analitico, sia in modo sintetico, a separare il locale dal globale, le discipline le une dalle altre, le cause dagli effetti, e poi a ricondurre a sintesi il globale, l’interdisciplinare, le retroazioni.   Il rinforzo e la penetrazione capillare del modello analitico (separatore) è stato al contempo effetto e causa del tipo di struttura sociale ed economica che si è diffusa durante i decenni dell’industrializzazione di massa. Negli anni del fordismo e del taylorismo l’organizzazione del lavoro era fortemente compartimentata: la differenza tra tempi di lavoro e tempi di vita era netta, i ruoli lavorativi rigidi e tendenzialmente invariabili, la specializzazione prevaleva sia nelle strutture sociali (la famiglia in primis), sia nelle strutture produttive. La crisi del fordismo ha modificato profondamente l’organizzazione della realtà, e il nostro modo di pensarla ha risentito dell’avvento dei mezzi digitali che permettendo l’accesso immediato a un’infinità di dati e di contatti, suggerisce un modo di pensare non lineare e chiuso, ma ipertestuale, multimediale e aperto. In questo nuovo contesto l’idea di global mind, già promossa da Edgar Morin diversi decenni fa, trova un terreno più fertile. Essere una mente globale oggi non significa solo avere conoscenze in tanti campi disciplinari diversi, significa soprattutto essere in grado di connetterle in una lettura sintetica della realtà, che osservi i fenomeni da tanti punti di vista, ma sia contemporaneamente in grado di restituire in modo organizzato il prisma che ha composto. Il valore di queste letture sintetiche è molto maggiore della somma di tante letture separate; una mente globale agisce sulle inefficienze della separazione disciplinare, traducendo i linguaggi e i sistemi di codificazione specifici delle differenti discipline, in una lettura dove i salti sono appianati e le interconnessioni rese evidenti. Questo permette ad una mente globale di essere molto più efficiente nella progettazione di nuove idee, nuove attività e nella visione di scenari futuri. Sia la progettazione, sia la visione di scenari per loro natura sono attività chiamate a confrontarsi con una quantità di variabili appartenenti a campi diversi; tradurne gli iati in ponti e armonizzare problemi eterogenei verso soluzioni logicamente orientate, è uno dei tipi di lavoro in cui le global minds possono portare maggiore valore aggiunto. La capacità di muoversi in campi differenti aumenta inoltre la capacità di innovare e di rispondere creativamente ai problemi. Il controllo di un maggior numero di attrezzi mentali e l’abitudine a ricombinarli dota infatti le global minds di un ventaglio di possibilità superiore a menti abituate a ragionare in modo strettamente disciplinare. Spesso le riflessioni provenienti dal pensiero ambientalista sono un nutrimento per le global minds. La necessità di affrontare problemi complessi e non scomponibili in laboratorio come quelli posti dall’analisi degli ecosistemi è un’ottima palestra. Non a caso l’ONU ha creato il gruppo multidisciplinare dell’IPCC per studiare il problema dei cambiamenti climatici. Non a caso “innovazione eco-sistemica” può essere la definizione per uno dei campi d’azione privilegiati per una mente globale.

L’innovazione tecnologica e i suoi effetti

© Harriet Lee Marrion, Invented here

L’innovazione tecnologica e i suoi effetti

29 Dicembre 2016

© Harriet Lee Marrion, Invented here
© Harriet Lee Marrion, Invented here
 

Il dibattito sull’innovazione tecnologica sembra avulso dalla società e dallo sviluppo capitalistico. Tra gli altri la materia è stata trattata dal World Economic Forum (Il futuro del lavoro) e dalla Mckinsey (Dove le macchine possono sostituire il lavoro). Il primo  affronta la così detta 4° rivoluzione industriale (Industria 4.0); il secondo indaga se e come le macchine possano sostituire il lavoro umano. La discussione è bipolare: qualcuno sostiene che le innovazioni tecnologiche siano una grande occasione per rilanciare il sistema economico; altri intravedono nel progetto il rischio di una sostituzione di lavoro umano con le macchine. L’elenco delle potenziali innovazioni tecnologiche utilizzate nei due studi sembra impressionante, ma la storia dell’economia capitalista è piena di novità – potenziali o meno – che hanno segnato il corso del come e del che cosa si produce. Freeman e Soete nel 1997 hanno proposto uno schema molto utile per rappresentare l’evoluzione storica delle meta innovazioni tecnologiche, a cui oggi si potrebbe aggiungere la green economy (se intesa correttamente, e non ridotta a mero slogan).

Il tema dell’innovazione non è un semplice problema ingegneristico – da questo punto di vista è chiaro che la tecnologia si accumula, generando sempre qualcosa di nuovo – occorre piuttosto indagarne le implicazioni economiche. Leon in Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica, e Sylos Labini in Progresso tecnico e sviluppo ciclico sono, probabilmente, i primi ad trattato l’oggetto in modo dinamico e non meccanicista.
World Economic Forum (WEF) e Mckinsey (Mc) ci informano che Industria 4.0 e le macchine modificheranno intensamente alcune tipologie di lavoro; senza usare i toni di WEF e Mc, è il caso di ricordare che questo è un tema storico-sociale e non di mera fattibilità tecnica. L’implementazione di queste tecniche infatti è 1) soggetta a molte e spesso incalcolabili variabili; 2) ha diversi gradi e livelli di realizzazione. Considerando anche la dinamica sociale e le consuetudini, l’accettazione di alcune di queste nuove tecnologie diviene cosa non scontata. Ricordiamo solo l’esempio utilizzato dalla Mc: il lavoro delle infermiere potrebbe essere sostituito dalle macchine, ma la società nel suo insieme non considererebbe queste tecniche come una tecnica superiore e le rifiuterebbe; alcune attività sono infatti ancora molto legate al contatto umano. Inoltre vi è un’altra variabile di difficile previsione: la tecnica potrebbe creare lavoro in settori limitrofi (D. Ricardo, teoria della compensazione), oppure all’opposto potrebbe non essere adottata in ragione degli alti costi di sviluppo e diffusione. I sostenitori di Industria 4.0, così come i fautori dell’introduzione di nuove tecniche di produzione, commettono un errore: indagano la tecnica come se fosse un fenomeno di pura conoscenza, dimenticando che la società cambia assieme alla tecnica senza che si possa sapere aprioristicamente come i settori produttivi coinvolti reagiranno. Cosa accadrà nei settori produttivi maturi? E in quelli emergenti? Sebbene i settori maturi saranno investiti da un cambio di paradigma senza precedenti storici, la dimensione di questi settori suggerisce prudenza nella valutazione dell’impatto delle macchine sul lavoro. Più che un effetto sostituzione di lavoro per mezzo di macchine, probabilmente ci sarà un effetto sostituzione di lavoro a basso contenuto conoscitivo con un lavoro a maggiore conoscenza incorporata. In altri termini, il numero dei lavoratori potrebbe rimanere inalterato, ma cambierebbe la natura (il “segno”) dello stesso. Se ipotizzassimo di applicare le nuove tecnologie nell’attuale (vecchio) paradigma, il saldo tra nuovo lavoro e vecchio lavoro sarebbe certamente negativo; ma il capitale evolve e cambia assieme alla società. Il sistema economico non rimane mai uguale a stesso, cambiano le consuetudini e le abitudini: l’emergere di una nuova classe media (WEF) in accordo con la legge di Engel modificherà i consumi, ma WEF e Mc, sembrano non conoscere gli effetti sui consumi legati alla crescita del reddito. Il processo è bidirezionale e non unidirezionale e la politica economica e industriale vi hanno un ruolo fondamentale, mentre la robotica è solo un pezzo del tema. Stiamo attraversando una grande transizione e l’esito è incerto perché non riducibile alla somma di tanti microelementi (il reddito stesso non può essere spiegato come mera somma dei comportamenti individuali).
Viviamo dentro la storia e non dentro un mero ciclo economico, ma i mainstream di diversa declinazione non l’hanno ancora capito.

La complessità di un sistema alimentare

© Mike McQuade, editorial illustration for Bon Appétit

La complessità di un sistema alimentare

28 Dicembre 2016

© Mike McQuade, editorial illustration for Bon Appétit
© Mike McQuade, editorial illustration for Bon Appétit
 

In questo articolo spiegheremo perché quando si parla di alimentazione sia necessario riferirsi ad un sistema e perché di conseguenza non sia sufficiente rendere sostenibili singole fasi o componenti del sistema alimentare, ma sia necessario considerarlo in tutta la sua complessità. Questo approccio sistemico è l’unico che ci permetta di rispondere a domande apparentemente molto semplici, come per esempio chi decide come e di cosa ci alimentiamo, quali conseguenze hanno queste decisioni sul territorio in cui viviamo o su territori molto distanti da noi, o ancora se un’alimentazione salutare per noi è salutare anche per il pianeta e per le persone che producono il cibo che mangiamo.

Le componenti di un sistema alimentare
Una modalità per schematizzare e capire di cosa si compone il sistema alimentare è quella che fa riferimento al ciclo alimentare e al contesto di riferimento. Il ciclo alimentare comprende tutti i passaggi coinvolti nella produzione e nel consumo di cibo, che possono essere raggruppati in 6 attività o fasi fondamentali: produzione, trasformazione, logistica, distribuzione, consumo e gestione degli scarti e dei rifiuti. Analizzare il ciclo alimentare significa analizzare tipologie e quantitativi di produzioni agricole, processi di trasformazione dell’industria alimentare, sistemi di confezionamento, stoccaggio e trasporto, modalità di vendita, abitudini di consumo, quantità e qualità degli scarti prodotti da tutte le componenti del ciclo stesso, metodi di recupero e gestione di questi scarti. Il contesto di riferimento è costituito invece dalle condizioni sociali, economiche, culturali e ambientali in cui il ciclo stesso si esplica: l’accesso ad un’alimentazione adeguata, gli aspetti demografici generali, le appartenenze etniche; l’innovazione e la ricerca, la legalità, le condizioni di lavoro, le regolamentazioni; la consapevolezza e l’educazione delle persone, le scelte alimentari e la salute; l’agroecosistema e la biodiversità, le condizioni climatiche.

La stretta relazione tra ciclo alimentare e contesto di riferimento
Ciclo alimentare e contesto sono interdipendenti, si influenzano e si modificano a vicenda. Il contesto fornisce risorse, materiali e immateriali, rinnovabili e non rinnovabili, al ciclo alimentare: materie prime, suolo, biodiversità, acqua, energia, risorse ittiche, servizi ecosistemici, forza lavoro, regolamentazioni, capitali, tecnologie, innovazioni. ll ciclo alimentare utilizza tali risorse per produrre cibo in maniera più o meno efficiente e le modifica, producendo degli impatti, sia su queste stesse risorse sia su altre componenti del sistema. Questo si verifica sia per le risorse ambientali che per le altre: un utilizzo intensivo del suolo ne causa l’impoverimento, ma anche una minor capacità di sequestrare CO2 con conseguente maggiore emissione di gas climalteranti in atmosfera; l’impiego vessatorio della forza lavoro o la gestione speculativa dei capitali producono disoccupazione, discriminazioni, divari sociali sempre più ampi ed illegalità.

Diversi livelli di approfondimento delle componenti del sistema alimentare
Nelle analisi sui sistemi alimentari, alcune delle componenti citate vengono studiate in termini approfonditi, tipicamente quelle legate al ciclo alimentare e ai suoi impatti ambientali. Numerosi studi dimostrano le conseguenze di una gestione non sostenibile delle risorse naturali utilizzate ad una velocità maggiore della loro capacità di rigenerazione con loro conseguente riduzione, così come i fenomeni di squilibrio del sistema derivanti da impatti superiori alla capacità di assorbimento degli stessi da parte di componenti ambientali. Esiste infatti una consapevolezza diffusa sull’importanza di considerare in maniera più attenta sia i tempi necessari alla rigenerazione delle risorse rinnovabili, sia la resilienza delle componenti ambientali al fine di ridurre esternalità negative quali degrado del suolo, perdita di biodiversità, emissione di gas serra, inquinamento delle acque. Minor consapevolezza esiste su altri aspetti. Si pensi per esempio alla carenza di dati disponibili relativamente ai flussi di cibo che attraversano una città: è molto difficile sapere da dove provenga tutto il cibo consumato in città o al contrario dove venga venduto e consumato tutto quello prodotto in città. I dati ci sono ma sono frammentati e spesso gelosamente custoditi da attori che, secondo la loro visione, sarebbero danneggiati da una “eccessiva” trasparenza.

La complessità di un sistema alimentare
Studiare il sistema alimentare di un territorio è molto complesso, poiché tanto il ciclo alimentare quanto il contesto di riferimento possono comprendere dimensioni spaziali molto vaste e un’enorme quantità di attori diversi, che travalicano i confini del territorio che si vuole analizzare: in particolare è il caso delle città – organismi in continua crescita, che spesso sperimentano situazioni di insicurezza alimentare – che soddisfano il proprio fabbisogno acquistando il cibo sia da produttori locali sia da mercati nazionali o internazionali. Il sistema alimentare mette allora in connessione le città sia con il territorio agricolo circostante sia con quello disponibile in altre parti del mondo. Questo pensiero è per esempio alla base dell’approccio City Region Food System (CRFS) adottato da FAO e RUAF e sintetizzato nel documento “A vision for a City Region Food System – Building sustainable and resilient city regions” (link al documento): in tale approccio il sistema alimentare ha la funzione di sottolineare questa connessione al fine di affrontare questioni di rilevanza internazionale (i diritti, il cambiamento climatico, la resilienza) in modo più pratico e focalizzato.

Conclusione
Le riflessioni fatte sul sistema alimentare aprono quindi una serie di questioni: come è possibile conciliare la scarsa disponibilità economica di un numero di famiglie sempre crescente con la possibilità di mangiare cibo sano? Esistono stili alimentari allo stesso tempo salutari e sostenibili dal punto di vista ambientale? Si può pensare di difendere il territorio agricolo rimasto all’interno dei contesti urbani senza sostenere i prodotti che da questo territorio arrivano? L’integrazione di persone provenienti da territori molto diversi può non tenere conto anche delle specifiche esigenze alimentari di queste persone? Obiettivo del sistema alimentare dovrebbe essere quello non solo di produrre cibo, ma sicurezza alimentare (ovvero cibo sicuro, sufficiente, accessibile e adeguato culturalmente), sostentamento e adeguate condizioni di lavoro per lavoratori impiegati nel ciclo alimentare (in qualunque parte del mondo si trovino), occasioni di fruizione del paesaggio, inserimento lavorativo di persone svantaggiate, integrazione e contaminazione tra culture diverse, consapevolezza di ciò che si mangia, salute e benessere delle persone, limitati impatti ambientali. Questo è possibile solo se l’intero sistema alimentare lavora in maniera sostenibile, limitando le esternalità negative e massimizzando quelle positive.

Produrre cibo altera il nostro clima?

© Chester Holme, Jack Wills

Il sistema alimentare è uno dei principali responsabili dell’emissione di gas serra. La letteratura scientifica arriva ad attribuirgli a livello globale un contributo fino al 57% delle emissioni totali. Lo speciale descrive quali sono i contributi delle diverse componenti del sistema agroalimentare e riassume i dati disponibili dalla scala nazionale a quella locale.

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Nei sistemi complessi, i confini contano

© Tom Haugomat, Nobrow 9

Nei sistemi complessi, i confini contano

25 Ottobre 2016

© Tom Haugomat, Nobrow 9
© Tom Haugomat, Nobrow 9
 

Il fiume Whanganui, che con i suoi 290 chilometri è il terzo per lunghezza della Nuova Zelanda, scorre in parte nell’omonimo Parco Nazionale conosciuto per essere l’habitat del kiwi bruno (Apteryx mantelli) e dell’anatra blu (Hymenolaimus malacorhynchos). L’unicità del suo ecosistema non è l’unico motivo per cui verrà ricordato. Nel 2012 il fiume si è reso protagonista di una rivoluzione legale, un accordo tra la comunità locale e il governo centrale, che lo ha dotato di uno status giuridico. Nel tempo, anche altre foreste e riserve della North Island hanno perseguito questa strada, come il Parco Nazionale Te Urewera. Il gruppo Maori che abita queste terre ha stretto un accordo con il governo neozelandese, il Te Urewera Act del 2014, per garantire a questa fetta di terra l’entità legale che le attribuisce tutti i diritti, poteri, doveri e responsibilità di una persona giuridica. Il sistema “Parco Nazionale Te Urewera” e il sistema “fiume Whanganui” si sono evoluti.

Contribuiscono ad essere parte degli elementi del sistema Te Urewera la biodiversità, il prezioso sistema ecologico indigeno, il patrimonio storico e culturale, i luoghi della riflessione spirituale, il rapporto sedimentato con i Tūhoe che lo abitano. Dal 2014 anche un inedito status legale. Questi elementi sono accomunati dall’essere loro stessi dei sistemi. Accettando la definizione contenuta in Thinking in System. A Primer di Donella Meadows, osservano tre caratteristiche: resilienza, auto-organizzazione e gerarchia. Questo basterebbe a spiegare il perché un sistema funziona o fallisce, ma la realtà dei sistemi dinamici dimostra che la dimensione influenza lo scopo per cui un sistema è stato ridotto ad un modello.

Per progettare questo Parco Nazionale sono stati introdotti dei confini fisici. Quando dobbiamo fotografare un sistema, è sempre necessario inventare dei confini. Nel caso del parco possono essere artificiali, naturali o politici; non corrispondono a delle vere e proprie discontinuità fisiche o in qualche modo oggettive. I confini di questo e di tutti gli altri Parchi Naturali (nodi di un sistema più ampio), sono attraversati da popoli, dagli animali selvatici che migrano, dalle acque che scorrono in entrata e in uscita e nel sottosuolo, dagli effetti dallo sviluppo economico ai margini del parco, dal cambiamento climatico prodotto dai gas serra nell’atmosfera. Non esistono sistemi separati, in quanto la Terra, che appartiene anch’essa ad un sistema, è un continuum.

Il fiume Whanganui attraversa l’area protetta del relativo Parco Nazionale solo per una piccola parte dei 290 chilometri per cui si snoda nella North Island. Il confine del pensare ad azioni dirette su questo fiume, ad esempio relative al monitoraggio della qualità dell’acqua, si allarga all’intera asta fluviale e non alla sola parte tutelata, comprendendo anche il suolo che lo circonda e il suo bacino idrografico, ma non lo spartiacque successivo e l’intero ciclo idrogeologico planetario. Allo stesso modo per gestire un parco è necessario pensare a confini più ampi del perimetro ufficiale disegnato sulle mappe, senza arrivare però a considerare l’intero pianeta.

Confini geografici, ma soprattutto confini nei modelli di rappresentazione della realtà. Il Te Urewera, visto la rinuncia del Governo alla sua formale proprietà, è un lembo di terra che agli occhi della legge vale quanto un Tūhoe che lo abita. Il sistema si è trasformato, in quanto il mondo naturale ha acquistato nuove interconnessioni, perdendone altre, allargando e re-stringendo confini.

Da qui l’importanza e la difficoltà nel collocare i confini di un sistema, affinché si inneschino all’occasione le modifiche al suo comportamento, ovvero una variazione controllabile dei flussi di informazione tra le interconnessioni (utilizzando il linguaggio del Sustainability Institute).

I Consigli del cibo: uno strumento di attuazione delle politiche alimentari urbane

© Max Guther

I Consigli del cibo sono istituti diffusi in tutto il mondo e rappresentano uno strumento attraverso il quale i governi locali dialogano con le diverse componenti della società in merito alle questioni che caratterizzano il sistema alimentare della città. L’analisi proposta da EStà individua le dieci dimensioni rilevanti per la strutturazione di un Consiglio del Cibo inquadrandole anche all’interno del contesto metropolitano milanese.

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Per leggere la realtà non bastano gli occhiali

© Harriet Lee Marrion, Dragon

Esistono ancora i distretti industriali? Quali sono le prospettive della manifattura? Le aree montane sono destinate ad agricoltura e turismo oppure possono conservare anche altre attività economiche? Una ricerca a 360° nella capitale mondiale dell’occhialeria sui destini produttivi del territorio.

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