La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

11 Luglio 2019

 

Le analisi che spiegano il ritardo economico italiano e lombardo con il costo del lavoro, la rigidità del mercato, l’invadenza dell’economia pubblica e, peggio ancora, con la mancanza di tutela dei prodotti made in Italy (Lombardy), appaiono di breve respiro e insoddisfacenti. I problemi di struttura della manifattura nazionale e lombarda hanno infatti radici lontane e persistenti che datano almeno all’inizio degli anni ‘90. Per inquadrare e interpretare correttamente la complessità occorre quindi partire dalle domande giuste.

Il report è costruito su due parti distinte ma comunicanti. Dopo la presentazione del modello macroeconomico interpretativo, la prima parte del lavoro si domanda innanzitutto quale sia il ruolo esercitato dall’Europa nel sistema economico, per le politiche europee recenti in campo industriale e per la ricerca e sviluppo, a questo si affianca uno studio sui brevetti, evidenziando la coerenza tra i due campi e il posizionamento dell’Italia e della Lombardia nel secondo.

La seconda parte del lavoro delinea il posizionamento della manifattura di Italia e Lombardia nel consesso europeo, comparando in particolare la produzione dei beni capitali e l’intensità tecnologica degli investimenti, collegando queste evidenze con il problema del vincolo tecnologico estero. La seconda parte continua con l’analisi della manifattura lombarda per provincia, e della polarizzazione centro-periferia. Le ultime pagine (conclusioni) delineano le questioni su cui sarebbe il caso che la politica, gli imprenditori e il sindacato inizino a lavorare.

Il metodo sotteso all’indagine è quello comparativo: tutte le statistiche vengono confrontate tra paesi e regioni; diversamente sarebbe impossibile rispondere alla domanda generale alla base di questa sezione, ossia se la Lombardia sia una regione strutturalmente europea, oppure una regione ai margini dello sviluppo continentale.

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La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

25 Giugno 2019

 

Milano 27 giugno 2019 h. 10

Auditorium Levi dell’Università Statale

Via Valvassori  Peroni 21

Discussione della ricerca

“La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda”.

La Fiom CGIL Lombardia, con la collaborazione scientifica dell’associazione Economia e Sostenibilità (EStà), ha svolto una ricerca sull’industria lombarda. L’analisi è stata condotta attraverso due distinte prospettive, una di taglio macroeconomico e una di taglio microeconomico. La prima ha analizzato i dati relativi alla produzione metalmeccanica regionale, ponendoli in relazione con le politiche di ricerca dell’Unione europea e con i risultati di altre regioni e stati continentali. La seconda ha analizzato per l’intero periodo 2008 – 2017 i dati di bilancio delle aziende metalmeccaniche lombarde, ponendo in relazione valore aggiunto, costo del lavoro, occupazione, investimenti immateriali.

 

Programma

h. 9.45 Saluti dal rettore dell’Università statale

h. 10 Introduzione di Alessandro Pagano – FIOM CGIL Lombardia e Andrea Di Stefano – EStà.

h 10.15 Prima sessione: “Crescita, specializzazione manifatturiera e paradigma tecnologico: il caso italiano e lombardo a confronto con l’Europa”

·       Presentazione di Roberto Romano – CGIL Lombardia – EStà

·       Discussione con, Silvia Spera – Segreteria CGIL Lombardia; Gianni Pietro Girotto – Presidente Commissione Industria, Commercio, Turismo del Senato*; Mario Noera – Università Bocconi.

 

h. 11.15 Seconda sessione: “Valore aggiunto, redditività e lavoro nelle imprese metalmeccaniche lombarde”

·       Presentazione di Alessandro Santoro – Università Bicocca.

·       Discussione con Attilio Fontana – Presidente Regione Lombardia*, Elena Lattuada – Segretario Generale CGIL Lombardia; Livio Romano – Centro Studi Confindustria; Anna Maria Variato – Università di Bergamo.

h. 12.15 Conclusioni di Francesca Re David – Fiom CGIL.

Modera Massimiliano Lepratti – EStà

* In attesa di conferma

Map4Mi: alla scoperta dell’attivismo geosociale

Map4Mi: alla scoperta dell’attivismo geosociale

26 Febbraio 2019

 

EStá,  Humanitarian OpenStreetMap Team – HOT e Cascina Cuccagna, in occasione della Milano Digital Week 2019, organizzano una giornata dedicata alla scoperta dell’attivismo geosociale.

Doppio appuntamento per giovedì 14 Marzo:

    • dalle 10.30 alle 17.30
    • MAP4MI ZONA 4, un esercizio pratico di mappatura focalizzato sulle percezioni della comunitá di zona 4 sugli spazi fisici presenti in Corso Lodi, comparando le zone piú centrali con quelle piú periferiche.
    •  
  • dalle 17.30 alle 19.30
  • CONFERENZA con la restituzione live della mappatura svolta al mattino, la presentazione del lavoro sul campo svolto da Giulia, Alessandro e Barbara in altri paesi, la presentazione degli strumenti tecnologici disponibili, le implicazioni etiche di questo nuovo tipo di attivismo.

Per iscriverti all’evento usa questo link!

 

 

HOT, team internazionale dedicato alle azioni umanitarie e sviluppo comunitario, illustrerà l’attività svolta in questi anni: un processo partecipativo di raccolta dati georeferenziati. HOT propone l’utilizzo di dati aperti e mappe come uno strumento per facilitare processi di conoscenza del territorio, prevenzione dei rischi naturali, pianificazione urbana, risposta alle emergenze, etc. Grazie a strumenti digitali innovativi è possibile applicare gli stessi concetti ovunque ed anche a Milano favorendo l’inclusione sociale e la partecipazione pubblica nella progettazione di azioni, iniziative e politiche.

Giulia, Alessandro e Barbara illustreranno l’utilizzo di Open Data Kit Collect (ODK), applicazione open source e gratuita, per la creazione, gestione e visualizzazione di dati georeferenziati. Attraverso ODK si possono raccogliere informazioni georeferenziate per censimenti sulla cittá e la popolazione, censimenti sui servizi, e la loro accessibiltá, indagini campionarie sulle percezioni della comunitá, progetti di ricerca sulla mobilitá, e sugli spazi di aggregazione, indagini di mercato e censimenti economici. ODK é uno strumento a costo zero, che richiede, per il suo utilizzo sul campo, una breve formazione, dipendendo dalla alfabetizzazione digitale dei soggetti a cui si rivolge.

 

 

Crediamo che attraverso la trasposizione dei dati raccolti su mappe si possa favorire una visualizzazione comprensiva e trasversale delle sfaccettature della cittá, e delle differenze tra centro e periferia. Per questo motivo abbiamo scelto la prima parte di Corso Lodi come il punto focale dell’esercizio di mappatura, essendo in zona 4 una delle vie che unisce il centro con la periferia.

Durante la conferenza illustreremo l’output dell’esercizio di mappatura prodotto in collaborazione con PoliMappers. Connetteremo le percezioni della comunitá con l’utilizzo degli spazi pubblici nella zona 4 della cittá di Milano.

La conclusione dell’evento prevederá la condivisione delle esperienze dei mappatori ed una riflessione sulla giornata e sul potere degli strumenti digitali per la ricerca, l’azione civile ed il supporto alle politiche.

L’evento è organizzato con il supporto di Exponiamoci ed Assifero.

Global minds

© AQ studio (Adam Quest), 2014

Global minds

5 Gennaio 2017

© AQ studio (Adam Quest), 2014
© AQ studio (Adam Quest), 2014
 
La realtà in cui siamo immersi è complessa e fonde in un tutto indistinto elementi temporali, spaziali, materiali, cromatici, quantitativi, acustici, olfattivi… Per renderla più comprensibile la mente umana la analizza, ossia la separa in categorie più circoscritte. Questo procedimento è alla base di molti concetti che gli esseri umani usano quotidianamente, quali i colori, i numeri, le grandezze etc. Lo stesso procedimento è all’origine delle cosiddette “discipline” con molte delle quali ciascuno tra noi familiarizza a partire dalla scuola e dall’insegnamento separato in ore di “storia” , di “geografia” , di “letteratura”, di “economia” etc. Le categorie sono pertanto indispensabili per rendere la realtà comprensibile alle nostre menti, ma la loro definizione e il loro uso implicano un’analisi critica intorno a tre grosse questioni. La prima è la necessità di riconoscerne il carattere non oggettivo. Le discipline si sforzano di trovare una propria base condivisa (l’epistemologia), ma si tratta di uno sforzo in continuo aggiornamento, non di un risultato. Nella categoria “colori” vi sono popoli che chiamano “bianco” quello che altri popoli suddividono in decine di altre categorie. Nella categoria “tempi verbali” vi sono popoli che usano una o due forme di tempo presente, altri che ne usano decine. La seconda questione, è collegata con la prima. Ogni cultura sviluppa alcune categorie di pensiero e le radica al punto tale che i singoli perdono di vista il carattere di costruzione artificiale e tendono a considerarle naturali. Un esempio tra tutti è la tendenza disgiuntiva del nostro modo di ragionare, tendenza radicatasi nel cosiddetto “Occidente” a partire dagli ultimi tre-quattro secoli. Dalla diffusione del razionalismo cartesiano in poi le menti di chi cresce in questa parte del mondo tendono automaticamente a pensare in modo “separante”. L’aut/aut, ossia il pensare che una cosa o è in un modo o altrimenti deve essere in un altro, è un tratto del nostro modo di ragionare. In realtà molto spesso caratteristiche contraddittorie o addirittura opposte possono convivere nello stesso oggetto (o soggetto), così come insegnano i grandi pensatori orientali: ciascuno tra noi può essere razionale ed emotivo, affettuoso o collerico in funzione della specifica situazione in cui si trova. Il terzo problema è il più grave ed è a sua volta collegato con il precedente. Se la nostra mente per conoscere la realtà ha bisogno di separarla in categorie, la realtà nella sua essenza è un tutto unico e inseparabile. Pertanto, dopo aver affrontato il momento dell’analisi, la nostra mente dovrebbe concludere il processo cognitivo con il momento della sintesi, attraverso il quale ridare alla realtà il suo aspetto effettivo. Ma questo solitamente non avviene. Poche persone vengono educate a pensare sia in modo analitico, sia in modo sintetico, a separare il locale dal globale, le discipline le une dalle altre, le cause dagli effetti, e poi a ricondurre a sintesi il globale, l’interdisciplinare, le retroazioni.   Il rinforzo e la penetrazione capillare del modello analitico (separatore) è stato al contempo effetto e causa del tipo di struttura sociale ed economica che si è diffusa durante i decenni dell’industrializzazione di massa. Negli anni del fordismo e del taylorismo l’organizzazione del lavoro era fortemente compartimentata: la differenza tra tempi di lavoro e tempi di vita era netta, i ruoli lavorativi rigidi e tendenzialmente invariabili, la specializzazione prevaleva sia nelle strutture sociali (la famiglia in primis), sia nelle strutture produttive. La crisi del fordismo ha modificato profondamente l’organizzazione della realtà, e il nostro modo di pensarla ha risentito dell’avvento dei mezzi digitali che permettendo l’accesso immediato a un’infinità di dati e di contatti, suggerisce un modo di pensare non lineare e chiuso, ma ipertestuale, multimediale e aperto. In questo nuovo contesto l’idea di global mind, già promossa da Edgar Morin diversi decenni fa, trova un terreno più fertile. Essere una mente globale oggi non significa solo avere conoscenze in tanti campi disciplinari diversi, significa soprattutto essere in grado di connetterle in una lettura sintetica della realtà, che osservi i fenomeni da tanti punti di vista, ma sia contemporaneamente in grado di restituire in modo organizzato il prisma che ha composto. Il valore di queste letture sintetiche è molto maggiore della somma di tante letture separate; una mente globale agisce sulle inefficienze della separazione disciplinare, traducendo i linguaggi e i sistemi di codificazione specifici delle differenti discipline, in una lettura dove i salti sono appianati e le interconnessioni rese evidenti. Questo permette ad una mente globale di essere molto più efficiente nella progettazione di nuove idee, nuove attività e nella visione di scenari futuri. Sia la progettazione, sia la visione di scenari per loro natura sono attività chiamate a confrontarsi con una quantità di variabili appartenenti a campi diversi; tradurne gli iati in ponti e armonizzare problemi eterogenei verso soluzioni logicamente orientate, è uno dei tipi di lavoro in cui le global minds possono portare maggiore valore aggiunto. La capacità di muoversi in campi differenti aumenta inoltre la capacità di innovare e di rispondere creativamente ai problemi. Il controllo di un maggior numero di attrezzi mentali e l’abitudine a ricombinarli dota infatti le global minds di un ventaglio di possibilità superiore a menti abituate a ragionare in modo strettamente disciplinare. Spesso le riflessioni provenienti dal pensiero ambientalista sono un nutrimento per le global minds. La necessità di affrontare problemi complessi e non scomponibili in laboratorio come quelli posti dall’analisi degli ecosistemi è un’ottima palestra. Non a caso l’ONU ha creato il gruppo multidisciplinare dell’IPCC per studiare il problema dei cambiamenti climatici. Non a caso “innovazione eco-sistemica” può essere la definizione per uno dei campi d’azione privilegiati per una mente globale.

La circolarità sistemica

© Inus Pretorius, The Idea Factory

3 Gennaio 2017

DI

Massimiliano Lepratti

© Inus Pretorius, The Idea Factory
© Inus Pretorius, The Idea Factory

La circolarità sistemica

L’applicazione di principi fisici ed ecologici alle discipline socio-economiche ha permesso di affinare  gli strumenti per misurare i rischi che la specie umana corre nel perseguire gli attuali metodi di produzione, trasporto e consumo. Lo Stockholm resilience center ha costruito un cruscotto per misurarli: si tratta di 9 indicatori, per ciascuno dei quali un colore semaforico indica il livello di pericolo a cui l’umanità è arrivata (il rosso indica un danno irreversibile dalle conseguenze non valutabili). Tra le molte considerazioni che il cruscotto evoca è utile ricordare che il cambiamento climatico è solo una delle variabili in gioco e che il livello di pericolo di sopravvivenza è riferito all’umanità e non al pianeta nel suo complesso (quest’ultimo è abituato a vedere scomparire specie).

In risposta a questi problemi all’inizio del decennio attuale il sistema economico ha iniziato a dare applicazione a un principio fisico estremamente razionale: poiché il nostro pianeta vive ricevendo dall’universo quantità enormi di energia (solare) e quantità pressoché nulle di materia, è molto più sensato produrre energia grazie all’infinità del sole che bruciando materia fossile limitata. Il costo calante delle tecnologie sta rendendo possibile il passaggio.
Se nel campo dell’energia le rinnovabili sono una risposta per coniugare riduzione dei danni ecologici e innovazione economica, nel campo della materia è la cosiddetta economia circolare lo strumento per produrre gli stessi impatti. La progettazione di oggetti e apparecchi destinati a non divenire rifiuti, l’utilizzo degli scarti come materia prima per nuovi cicli, la riduzione della quantità di materia per unità di ricchezza prodotta (PIL) sono tutte pratiche che contribuiscono ad evitare che la materia disponibile si trasformi in scarti ambientalmente inquinanti ed economicamente inutilizzabili.
Le capacità industriali per produrre energia e materia con processi e risultati attenti all’ecologia planetaria crescono e si diffondono rapidamente: l’edilizia adotta nuove tecniche, l’illuminazione a LED prende piede, le auto elettriche cominciano a diffondersi, la biochimica entra nella vita quotidiana con i sacchetti in mater-bi; ma in sé la somma di tanti singoli attori non garantisce che la rappresentazione raggiunga l’impatto voluto. Almeno due fattori ulteriori arricchiscono un’analisi delle tendenze produttive attuali che non voglia fermarsi agli epifenomeni. Il primo è l’effetto rimbalzo: se la quantità di impatto ecologico per unità prodotta diminuisce, ma al contempo aumenta più che proporzionalmente il numero di unità consumate, l’effetto è vanificato. Dobbiamo infatti considerare che la popolazione mondiale è destinata ad aumentare drasticamente, superando i nove miliardi nel 2050, e che ciò sarà accompagnato da un aumento della competizione per il controllo delle risorse. Il secondo fattore, più complesso, attiene agli impatti sociali. Un miglioramento del quadro ecologico non necessariamente si traduce in un miglioramento di problemi quali la disoccupazione, gli squilibri di reddito, il diseguale accesso alle risorse. Inoltre, perché le soluzioni proposte dall’economia circolare siano efficaci, oltre che efficienti, è necessario che siano accessibili e inclusive, cioè che non si traducano in soluzioni di nicchia per un mercato omogeneo e ristretto. Il problema degli scarti e delle eccedenze inutilizzate non riguarda infatti solo la materia, ma è intrinseco a tutto il sistema socio economico e ambientale.

Nella rappresentazione ideale contenuta nell’immagine qui sopra, e proposta dall’Economia Verde di Molly Scott Cato, l’economia è un subsistema – chiuso e limitato – dell’ecosistema di cui è parte integrante. Nella realtà attuale i meccanismi sono molto diversi, l’economia si percepisce come dimensione dominante e autonoma, producendo rifiuti che riversa nell’ambiente sotto forma di inquinamento (le cosiddette “esternalità”), e “scarti” che riversa nella società sotto forma di disoccupati.
Un’economia diversa potrebbe invece ispirarsi al principio ecologico della circolarità (tale per cui ogni scarto o eccedenza diviene risorsa per qualcun altro) intendendo quest’ultimo in modo sistemico, ossia come principio a cui è utile ispirare tutti i principali meccanismi legati alla produzione:

• l’economia “reale” (programmando la riduzione della produzione di scarti e riutilizzando scarti ed eccedenze come nuove materie di input);
• la finanza (minimizzando i meccanismi che creano “eccedenze” finanziarie improduttive e destinate a speculazioni, e massimizzando la circolazione della moneta a sostegno della produzione di beni e servizi ambientalmente e socialmente utili);
• i meccanismi distributivi e il mercato del lavoro (favorendo la circolazione e la migliore allocazione di ogni forma di potenziale “eccedenza”: disoccupati disponibili a impiegare la propria capacità lavorativa, risorse inutili per alcuni e utili per altri, grandi quote di ricchezza da ridistribuire socialmente…).

Un passaggio verso la circolarità sistemica non può tuttavia prodursi grazie ai soli meccanismi di mercato. Nel mercato for profit dei beni e servizi, della finanza, del lavoro ogni impresa tende ad agire per aumentare i propri vantaggi di breve e di lungo termine, e se alcune tra queste azioni possono coincidere con il benessere del sistema complessivo (come nel caso dell’adozione di tecniche produttive più ecologiche), altre non vanno nella stessa direzione (ad esempio son pochissime le imprese che riducono spontaneamente l’orario di lavoro).
Un grande cambiamento di sistema non può quindi essere prodotto senza il concorso di chi per natura svolge una funzione sistemica: gli enti pubblici e il terzo settore, accanto al mercato. Da un lato, i grandi enti pubblici (Stati nazionali, Unione europea…) possiedono la vastità di mezzi, la possibilità di investimenti a lungo termine e il potere di indirizzo dell’economia (verso la ridistribuzione di ricchezza e lavoro e verso il benessere collettivo) necessari per favorire un’innovazione di paradigma. Dall’altra, il terzo settore (imprese sociali e cooperative, associazioni di volontariato e della società civile) può garantire l’apertura dell’economia circolare alla diversità e all’inclusione sociale e, allo stesso tempo, un suo orientamento verso forme di mercato civile – in cui etica, ecologia ed economia vengono riavvicinate in modo sistemico.

 

L’innovazione tecnologica e i suoi effetti

© Harriet Lee Marrion, Invented here

L’innovazione tecnologica e i suoi effetti

29 Dicembre 2016

© Harriet Lee Marrion, Invented here
© Harriet Lee Marrion, Invented here
 

Il dibattito sull’innovazione tecnologica sembra avulso dalla società e dallo sviluppo capitalistico. Tra gli altri la materia è stata trattata dal World Economic Forum (Il futuro del lavoro) e dalla Mckinsey (Dove le macchine possono sostituire il lavoro). Il primo  affronta la così detta 4° rivoluzione industriale (Industria 4.0); il secondo indaga se e come le macchine possano sostituire il lavoro umano. La discussione è bipolare: qualcuno sostiene che le innovazioni tecnologiche siano una grande occasione per rilanciare il sistema economico; altri intravedono nel progetto il rischio di una sostituzione di lavoro umano con le macchine. L’elenco delle potenziali innovazioni tecnologiche utilizzate nei due studi sembra impressionante, ma la storia dell’economia capitalista è piena di novità – potenziali o meno – che hanno segnato il corso del come e del che cosa si produce. Freeman e Soete nel 1997 hanno proposto uno schema molto utile per rappresentare l’evoluzione storica delle meta innovazioni tecnologiche, a cui oggi si potrebbe aggiungere la green economy (se intesa correttamente, e non ridotta a mero slogan).

Il tema dell’innovazione non è un semplice problema ingegneristico – da questo punto di vista è chiaro che la tecnologia si accumula, generando sempre qualcosa di nuovo – occorre piuttosto indagarne le implicazioni economiche. Leon in Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica, e Sylos Labini in Progresso tecnico e sviluppo ciclico sono, probabilmente, i primi ad trattato l’oggetto in modo dinamico e non meccanicista.
World Economic Forum (WEF) e Mckinsey (Mc) ci informano che Industria 4.0 e le macchine modificheranno intensamente alcune tipologie di lavoro; senza usare i toni di WEF e Mc, è il caso di ricordare che questo è un tema storico-sociale e non di mera fattibilità tecnica. L’implementazione di queste tecniche infatti è 1) soggetta a molte e spesso incalcolabili variabili; 2) ha diversi gradi e livelli di realizzazione. Considerando anche la dinamica sociale e le consuetudini, l’accettazione di alcune di queste nuove tecnologie diviene cosa non scontata. Ricordiamo solo l’esempio utilizzato dalla Mc: il lavoro delle infermiere potrebbe essere sostituito dalle macchine, ma la società nel suo insieme non considererebbe queste tecniche come una tecnica superiore e le rifiuterebbe; alcune attività sono infatti ancora molto legate al contatto umano. Inoltre vi è un’altra variabile di difficile previsione: la tecnica potrebbe creare lavoro in settori limitrofi (D. Ricardo, teoria della compensazione), oppure all’opposto potrebbe non essere adottata in ragione degli alti costi di sviluppo e diffusione. I sostenitori di Industria 4.0, così come i fautori dell’introduzione di nuove tecniche di produzione, commettono un errore: indagano la tecnica come se fosse un fenomeno di pura conoscenza, dimenticando che la società cambia assieme alla tecnica senza che si possa sapere aprioristicamente come i settori produttivi coinvolti reagiranno. Cosa accadrà nei settori produttivi maturi? E in quelli emergenti? Sebbene i settori maturi saranno investiti da un cambio di paradigma senza precedenti storici, la dimensione di questi settori suggerisce prudenza nella valutazione dell’impatto delle macchine sul lavoro. Più che un effetto sostituzione di lavoro per mezzo di macchine, probabilmente ci sarà un effetto sostituzione di lavoro a basso contenuto conoscitivo con un lavoro a maggiore conoscenza incorporata. In altri termini, il numero dei lavoratori potrebbe rimanere inalterato, ma cambierebbe la natura (il “segno”) dello stesso. Se ipotizzassimo di applicare le nuove tecnologie nell’attuale (vecchio) paradigma, il saldo tra nuovo lavoro e vecchio lavoro sarebbe certamente negativo; ma il capitale evolve e cambia assieme alla società. Il sistema economico non rimane mai uguale a stesso, cambiano le consuetudini e le abitudini: l’emergere di una nuova classe media (WEF) in accordo con la legge di Engel modificherà i consumi, ma WEF e Mc, sembrano non conoscere gli effetti sui consumi legati alla crescita del reddito. Il processo è bidirezionale e non unidirezionale e la politica economica e industriale vi hanno un ruolo fondamentale, mentre la robotica è solo un pezzo del tema. Stiamo attraversando una grande transizione e l’esito è incerto perché non riducibile alla somma di tanti microelementi (il reddito stesso non può essere spiegato come mera somma dei comportamenti individuali).
Viviamo dentro la storia e non dentro un mero ciclo economico, ma i mainstream di diversa declinazione non l’hanno ancora capito.

Effetti del caso Volkswagen: verso un nuovo paradigma di mobilità sostenibile

© Jim Tsinganos, The Milken Institute Review

Lo scandalo delle emissioni truccate del gruppo Volkswagen solleva temi sociali (l’impatto sulla salute), ambientali (inquinamento) ed economici (i cambiamenti nell’industria dell’auto). Solo la combinazione di forme di trasposto collettivo con l’adozione di motori elettrici può agire su tutti e tre i settori, riservando nuove occasioni di lavoro per chi saprà anticipare i futuri sviluppi.

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Per leggere la realtà non bastano gli occhiali

© Harriet Lee Marrion, Dragon

Esistono ancora i distretti industriali? Quali sono le prospettive della manifattura? Le aree montane sono destinate ad agricoltura e turismo oppure possono conservare anche altre attività economiche? Una ricerca a 360° nella capitale mondiale dell’occhialeria sui destini produttivi del territorio.

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