I numeri e la società

© Loulou and Tummie, 2015
© Loulou and Tummie, 2015
 

I numeri e la società

I fenomeni economici e sociali non possono e non sono ravvisabili nei numeri. La statistica descrittiva aiuta a studiare i fenomeni quantitativi e qualitativi della collettività, sebbene le condizioni di incertezza, cioè di incompleta conoscenza di essa o di una sua parte, assegnano alla logica e all’intelligenza un ruolo ancor più stringente. La semplice rilevazione di un numero, per esempio l’inflazione, non permette di catturare il fenomeno dell’inflazione. Occorre accoppiare sempre un’altra rilevazione per catturare e interpretare la crescita dei prezzi: possono crescere i profitti, il costo delle materie prime, oppure gli investimenti non hanno dato i risultati attesi. Possiamo anche sostenere che la crescita della massa monetaria ha permesso la crescita dei prezzi dei titoli quotati in borsa; è una crescita del valore dei titoli trattati o una crescita dei prezzi dei titoli trattati?

La dissertazione è un avvertimento ai naviganti circa le misure e gli indicatori. Sono sempre utili e funzionali all’interpretazione dei fenomeni, ma è solo grazie al metodo e all’intelligenza che i numeri possono raccontarci qualcosa di interessante, che rimane pur sempre parziale e verificabile (Popper e la discutibilità della tesi).

L’esperienza e il lavoro aiutano. Passo dopo passo permette di affinare le informazioni statistiche, di testarle e verificare la loro attendibilità (parziale) rispetto ai fenomeni economici e sociali.

EStà ha maturato alcune convinzioni rispetto ai numeri che più e meglio di altri aiutano la comprensione della società.  Sono un supporto prezioso per catturare il ben-essere della collettività ravvisabile nei cambiamenti climatici, occupazionali e di reddito disponibile. Rispetto al reddito disponibile utilizziamo sia la contabilità dei fattori, sia quella della domanda. Si tratta di due facce della stessa medaglia, ma con un significato economico abbastanza diverso. Il primo tende a misurare il Reddito dal lato del consumo, degli investimenti e della spesa pubblica; il secondo osserva la sua distribuzione, ovvero la ripartizione tra salari, profitto e rendita. Inoltre, EStà cerca sempre di comparare le informazioni statistiche con quelle di altre realtà socioeconomiche che meglio di altre possono essere associate al Paese o alla Regione Lombardia. Diversamente i “numeri” raccolti hanno una capacità esplicativa manifestamente contenuta. La comparazione è un tratto caratteristico del nostro lavoro.

Alcune ipotesi di ricerca sviluppate nel tempo e con un certo grado di raffinatezza, pur nei limiti sopra ricordati, suggeriscono che 1) alcune variabili sono più rappresentative di altre e 2) la combinazione tra due variabili permette di catturare (in parte) alcuni tratti dei fenomeni indagati. Solo per offrire una prima rappresentazione immaginiamo di voler catturare l’innovazione tecnologica e/o il contenuto tecnico degli investimenti. La prima potrebbe essere legata all’innovazione incorporata negli investimenti (investimenti su valore aggiunto), la seconda nell’intensità tecnologica (ricerca e sviluppo su investimenti). Naturalmente il fenomeno è più complesso, ma nel tempo ha mostrato una certa solidità, anche accademica, attraverso un certo numero di pubblicazioni.

Alcuni indicatori sono consolidati nella pubblicistica e difficilmente è possibile rinunciarvi:

  • Consumi
  • Investimenti
  • Spesa pubblica

A questi possiamo associare:

  • Reddito da lavoro;
  • Reddito da profitto;
  • Reddito da rendita, ancorché quest’ultima abbia non poche implicazioni economiche di difficile soluzione.

Come è facile intuire, è solo attraverso la comparazione con altre realtà socioeconomiche omogenee che queste variabili possono consegnarci un risultato adeguato a esprimere una qualsiasi valutazione. Inoltre, è necessario considerare le poste indicate utilizzando alcune sotto categorizzazioni: pro-capite, a prezzi costanti e/o correnti, in rapporto all’aggregato e via discorrendo.

EStà ha poi indagato nelle proprie ricerche la struttura economica, ovvero il contenuto quali-quantitativo dell’offerta. Di norma utilizziamo il valore aggiunto per addetto, sostanzialmente la produttività, nella consapevolezza che il valore aggiunto è soggetto a molte considerazioni. Infatti, il valore aggiunto, così come la sua dinamica, variazione su un anno base, è legato al posizionamento del settore rispetto alla domanda, al contenuto tecnico e tecnologico dell’output e alla specializzazione produttiva. Di norma tentiamo di catturare questi fenomeni in quanto restituiscono la “resilienza” del settore e del sistema economico nel suo insieme. Il processo potrebbe essere rappresentato come una approssimazione quali-quantitativa che assume ancor più significato se le informazioni considerate vengono comparate. In particolare:

  • Investimenti su valore aggiunto (reddito)
  • Ricerca e Sviluppo su investimenti che in alcuni casi può anche rappresentare la conoscenza incorporata nei beni capitali
  • Incidenza del valore aggiunto aggregato per settore che restituisce il quanto e il come una realtà economica è specializzata

Tale approccio è apparso un punto di partenza utile per catturare la grande sfida tecno-economica sottesa al Green deal e alla digitalizzazione. In effetti, se agli indicatori appena menzionati associamo le emissioni climalteranti (CO2 eq.)  possiamo “valutare” alcune correlazioni (link) tra le emissioni di CO2 con gli investimenti, la Ricerca e Sviluppo, il valore aggiunto e la specializzazione produttiva, ottenendo indicazioni su come un ambito settoriale e/o territoriale si colloca rispetto alla sfida cogente della decarbonizzazione. Più precisamente:

  • CO2 su valore aggiunto
  • CO2 su investimenti
  • CO2 su ricerca e sviluppo
  • CO2 su intensità tecnologica
  • CO2 su reddito da lavoro.

EStà si è anche cimentata in alcune stime circa gli effetti occupazionali e di valore aggiunto di investimenti, ricerca e sviluppo tesi a ridurre l’impatto climalterante della CO2. Una sfida che affonda le sue radici in approcci metodologi diversificati perché riflettono modi differenti di vedere la società, ma utili per costruire le stime, le quali rimangono tali. In effetti, un modello che catturi il potenziale paradigma tecno-economico non esiste, nemmeno nella teoria della complessità veicolata da Mauro Gallegati.

EStà non rappresenta il mondo per quello che è, piuttosto interpreta e suggerisce delle idee rispetto ad alcune variabili testate nel tempo. La materia economica e statistica non sono una scienza neutrale. Chi guarda il mondo ha sempre occhiali e fotografie da utilizzare.

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L’economia circolare urbana

24 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

© Anna-Kaisa Jormanainen
© Anna-Kaisa Jormanainen
 

L’economia circolare urbana

Le città e le relative aree urbane non possono pensarsi come unità economiche autosufficienti, né questo avrebbe senso per ragioni naturali, economiche e culturali. Da un punto di vista naturale le città non possiedono le superfici agricole e acquatiche sufficienti per assicurarsi l’autonomia; da  un punto di vista economico la produzione di molti beni di origine industriale diviene  più conveniente se collocata al di fuori di aree urbane, costose in termini di affitti e poco funzionali in termini di spazi e di servizi connessi; da un punto di vista culturale gli scambi relativi a beni o servizi di tipo cultural-artistico o artigianale è utile che avvengano anche su scale territoriali ampie per favorire la conoscenza e il confronto arricchente con le diversità.

Una serie di flussi di entrata e di uscita invece è opportuno che seguano principi di circolarità su scala locale, per ragioni sia ambientali, sia sociali ed economiche e per questo la distinzione tra flussi ad orientamento circolare-locale, e flussi che interessano scale territoriali diverse è un’operazione che evita approcci autarchici o semplificati e offre una chiave di lettura verso cui orientare le interpretazioni e le relative scelte politiche.

L’economia circolare a scala locale ha senso laddove la produzione, il riuso e il riciclaggio sono più efficaci economicamente, socialmente e/o ambientalmente rispetto ad opzioni diverse. Questo avviene in una parte dei flussi di approvvigionamento quotidiano, ossia nel campo del cibo e dell’energia.

Mentre già da alcuni anni sono disponibili studi sull’impatto occupazionale dell’economia circolare, ad oggi è invece difficile stimarne l’impatto economico complessivo, in termini di aumento del valore aggiunto prodotto. Occorrerebbe considerare contemporaneamente l’influsso di una serie di variabili, spesso di segno diverso, quali: la diminuzione dell’acquisto di beni nuovi; la produzione di beni a valore aggiunto maggiore; lo sviluppo di servizi di recupero (latu sensu), alcuni dei quali potrebbero portare all’estrazione di sostanze chimiche o allo sviluppo di processi di trattamento dei rifiuti ad alto valore aggiunto, oggi ancora di difficile valutazione; la presenza o meno di barriere di diverso tipo affinché alcune evoluzioni possano avvenire o meno (ad esempio barriere normative sull’utilizzo di beni end of waste).

Sul piano socio-economico un effetto indiretto poco considerato negli studi di tipo macroeconomico è il ventaglio dei vantaggi per il consumatore. Conservare nel tempo le funzioni di uso di un oggetto, progettandolo per questo scopo e poi riparandolo e rigenerandolo, diminuisce la frequenza degli acquisti, abbassando non solo l’impatto ambientale, ma anche i relativi esborsi in denaro.

 

NB. Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio in inglese di M. Lepratti, coordinatore di Està, The circular economy, contenuto nella pubblicazione Training for Education, Learning and Leadership towards a new MEtropolitan Discipline: Inaugural Book.

Di seguito è possibile scaricare la pubblicazone integrale del progetto TELLme, esito di una collaborazione tra università, enti di ricerca e ong in Italia, Spagna, Messico e Argentina che contribuisce allo sviluppo di una “disciplina metropolitana” per comprendere, concettualizzare, progettare e gestire la dimensione metropolitana delle città. Il progetto, pubblicato da CIPPEC, ha coinvolto partner europei e latinoamericani, tra cui: Fondazione Politecnico di Milano, Politecnico di Milano, DOBA Faculty, Universidad de Sevilla, Cnr – Irea, Universidad Autónoma Metropolitana, Universidad de Cuyo e Universidad de Guadalajara.

 

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Sviluppo e sostenibilità

10 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

@ Luke Best, Updates
@ Luke Best, Updates
 

Il rapporto tra industria e natura

La terra è un pianeta che dall’esterno non riceve alcun apporto di materia e che invece, grazie al sole, riceve continuamente e indefinitamente un’immensa quantità di energia. Al contempo gli abitanti del pianeta terra da due secoli si procurano le principali fonti di energia attraverso la depauperazione progressiva della quantità di materia data. Uno dei meccanismi chiave delle rivoluzioni industriali è celato dietro questo paradosso: pur disponendo di una quantità limitata di materia (fossile) ad alto potenziale inquinante, il mondo 200 anni fa ne ha fatto la base per alimentare un nuovo sistema produttivo a crescita rapidissima e potenzialmente illimitata.

Oggi il paradosso si pone con forza rinnovata. Due secoli di rivoluzione industriale hanno aumentato indefinitamente il potenziale produttivo e comunicativo dell’umanità connettendo i continenti, moltiplicando le rese agricole, stimolando in soli trent’anni (1945-’75) un aumento di ricchezza globale superiore a quello verificatosi nei mille anni precedenti. Negli stessi trent’anni si è avverato appieno quanto preconizzava già nel 1873 il geologo italiano Antonio Stoppani, quando proponeva di definire l’epoca che stava vivendo con il nome di era “antropozoica” a segnare il grande potenziale di dominio che l’essere umano stava acquisendo sul resto della natura. Ma la natura ha chiesto conti che sono diventati sempre più salati, manifestandosi tra l’altro nei disastri umani e ambientali di Seveso in Italia nel 1976, di Love Canal negli Usa nel 1978, di Bhopal in India nel 1984, di Cernobyl in Urss nel 1986, della Exxon Valdez in Alaska nel 1989, dell’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait nel 1991.

Davanti alla contraddizione tra economia e ambiente oggi nuova rivoluzione industriale è chiamata a riconnettere lavoro e natura in un percorso che riconcili dinamiche finora contrastanti, che abbassi il consumo di materia aumentando il contenuto intellettivo dei beni e dei servizi prodotti, che rispetti i limiti climatici senza porre limiti allo sviluppo della ricchezza sociale, che restituisca all’energia illimitata dallo spazio la preminenza sulla materia fossile e limitata utilizzata finora dagli esseri umani.

Ogni rivoluzione economica provoca terremoti, quella futura li provocherà se non avverrà, quelle passate hanno lasciato i loro splendori e i loro dolori:

Andate a dire ai buoi che vadan via/ che quel che han fatto è fatto/ e che oggi si ara prima col trattore/ E piange il cuore a tutti se li guardi/ che dopo che han lavorato mille anni/ adesso se ne vanno a testa bassa / dietro la corda lunga del macello (Tonino Guerra, traduzione dell’autore)

 

Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio di M. Lepratti, coordinatore di Està, Sviluppo e sostenibilità, contenuto nell’ebook di Fondazione Feltrinelli Progresso inconsapevole.

Il concetto di resilienza all’interno dell’ecosistema urbano

© Goncalo Viana, Highrise

L’ecosistema urbano è sempre più esteso in tutto il mondo e questo processo di crescita è destinato ad accelerare nei prossimi decenni. Si tratta di un sistema fragile esposto a numerosi possibili shock, compresi quelli di tipo climatico derivanti dal riscaldamento globale. Diventa imperativo accrescerne la resilienza, sotto l’aspetto strutturale ma anche sociale. Questo processo passa per la comprensione del fenomeno, la sua misura, la formulazione di azioni di intervento e la misurazione dei loro effetti.

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Le opportunità per le imprese nel processo di trasformazione verso un’economia ecologica

© AQ studio (Adam Quest), 2013

Le opportunità per le imprese nel processo di trasformazione verso un’economia ecologica

21 Dicembre 2016

© AQ studio (Adam Quest), 2013
AQ-studio-2013

La portata delle decisioni prese durante la COP 21 di Parigi va oltre gli aspetti diplomatici e formali, vi è in gioco un processo di riduzione dei gas climalteranti e di decarbonizzazione che incide profondamente sulla programmazione del modello economico e che sta producendo impegni e accordi applicativi.
Alla COP 22 di Marrakech alcuni grandi Stati (tra cui Germania, Messico, USA) ed alcuni Stati Nordeuropei hanno presentato piani di decarbonizzazione completa della loro economia entro il 2050, piani di ampio respiro che non si limitano al solo tema, pur importantissimo, dell’energia.

L’Italia è in forte ritardo, un problema dovuto anche agli svantaggi creati da un sistema produttivo come il nostro, estremamente frazionato in piccole e medie imprese. I possibili attori produttivi nazionali che, per storia e dimensione, potrebbero essere investiti di un compito strategico sono pochi: ENI, ENEL e non molto di più (considerando che Leonardo-Finmeccanica ha altri orientamenti).
Nel complesso le scelte italiane sono molto più orientate verso l’adattamento difensivo al contesto anziché verso la proiezione strategica. Adattamento al contesto significa ad esempio che da noi il tema dell’efficienza energetica è stato interpretato come un mero problema di risparmio e non come l’occasione per un riesame sistemico di tutti i fattori che contribuiscono a creare esiti negativi.
Per modificare il senso di marcia occorrono invece politiche di ampio respiro che non possono che procedere dall’alto verso il basso (le singole aziende sono attori troppo deboli e parziali per intervenire al livello di complessità e sistematicità richiesto).
Durante la COP 22 l’Italia ha dichiarato che contribuirà per 50 milioni di dollari a uno stanziamento da 4,7 miliardi di dollari che i paesi ricchi hanno destinato ai paesi africani, per aiutarli a combattere il riscaldamento globale. Questi fondi tuttavia sono gli stessi che l’Italia avrebbe impegnato nella cooperazione allo sviluppo per cui di fatto si tratterebbe di un trasferimento da un capitolo all’altro. Una scelta di questo tipo non sarebbe negativa in sé, ma un conto è collocarla all’interno di una visione strategica di ampio periodo e con obiettivi alti, altro conto è usarla come mera scelta tattica, così come è accaduto a Marrakech.

Per pianificare una seria transizione ecologica del sistema produttivo italiano la prima cosa che occorrerebbe fare è la creazione di un’alleanza di scopo tra fondazioni bancarie, fondazioni di imprese e centri di ricerca.
La seconda strategia dovrebbe riguardare l’investimento sul capitale umano. Attualmente abbiamo Università e Centri di ricerca che formano studenti e svolgono analisi molto avanzate relativamente a singole parti del tema complessivo, manca tuttavia una visione ampia e un dialogo con il mondo delle imprese che crei unione tra teoria e applicazioni pratiche. Per sviluppare questo dialogo occorrono enti intermedi capaci di produrre ricerche orientate alla decisione e basate su casi studio, enti che facilitino le alleanze tra centri di ricerca, politica e mondo delle imprese. Per fare esempi pratici si può segnalare il caso di Milano dove si potrebbe attuare una strategia per la decarbonizzazione della città che dia un orizzonte sistemico a quanto attori o decisori hanno annunciato in campi come le energie rinnovabili e la mobilità sostenibile.
La terza strategia per la transizione all’economia ecologica riguarda la finanza. Grandi soggetti come il Parlamento europeo e i fondi sovrani degli Stati del Nord Europa stanno orientando le proprie decisioni verso una finanza etica, attenta agli impatti ambientali e sociali (il più attivo è il fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo). Anche a livello privato vi sono iniziative di notevole interesse: in Olanda l’istituto “municipale” BNG Bank ha emesso bond per un miliardo di euro destinati a finanziare le 92 associazioni di social housing locale giudicate maggiormente sostenibili (secondo le valutazioni in merito agli aspetti ambientali e sociali degli edifici coinvolti) con un focus sui quelle che operano nei quartieri più disagiati; il 40% degli acquirenti dei bond è tedesco, circa il 20% viene dalla Francia,. mentre gli italiani sono assenti.
Il sistema finanziario nella nostra nazione, con rare eccezioni (Intesa San Paolo, alcuni fondi pensione), è in grandissimo ritardo e sul tema della transizione verso l’economia ecologica si colloca ad un livello ancora inferiore a quello del sistema industriale. Nel caso dei finanziamenti orientati verso la sostenibilità ambientale e sociale l’unico spazio immediato che pare percorribile in Italia è quello che proviene dal basso, dall’allargamento e dalla diffusione di iniziative di attori privati; la finanza francese sta provando a muovere i primi passi nel nostro Paese con questo spirito, e al momento iniziative simili vanno seguite con molta attenzione.

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Intervento nell’ambito del seminario di EStà Panorama green jobs: strategie di incontro tra domanda e offerta. Milano 5 dicembre 2016.

Nei sistemi complessi, i confini contano

© Tom Haugomat, Nobrow 9

Nei sistemi complessi, i confini contano

25 Ottobre 2016

© Tom Haugomat, Nobrow 9
© Tom Haugomat, Nobrow 9
 

Il fiume Whanganui, che con i suoi 290 chilometri è il terzo per lunghezza della Nuova Zelanda, scorre in parte nell’omonimo Parco Nazionale conosciuto per essere l’habitat del kiwi bruno (Apteryx mantelli) e dell’anatra blu (Hymenolaimus malacorhynchos). L’unicità del suo ecosistema non è l’unico motivo per cui verrà ricordato. Nel 2012 il fiume si è reso protagonista di una rivoluzione legale, un accordo tra la comunità locale e il governo centrale, che lo ha dotato di uno status giuridico. Nel tempo, anche altre foreste e riserve della North Island hanno perseguito questa strada, come il Parco Nazionale Te Urewera. Il gruppo Maori che abita queste terre ha stretto un accordo con il governo neozelandese, il Te Urewera Act del 2014, per garantire a questa fetta di terra l’entità legale che le attribuisce tutti i diritti, poteri, doveri e responsibilità di una persona giuridica. Il sistema “Parco Nazionale Te Urewera” e il sistema “fiume Whanganui” si sono evoluti.

Contribuiscono ad essere parte degli elementi del sistema Te Urewera la biodiversità, il prezioso sistema ecologico indigeno, il patrimonio storico e culturale, i luoghi della riflessione spirituale, il rapporto sedimentato con i Tūhoe che lo abitano. Dal 2014 anche un inedito status legale. Questi elementi sono accomunati dall’essere loro stessi dei sistemi. Accettando la definizione contenuta in Thinking in System. A Primer di Donella Meadows, osservano tre caratteristiche: resilienza, auto-organizzazione e gerarchia. Questo basterebbe a spiegare il perché un sistema funziona o fallisce, ma la realtà dei sistemi dinamici dimostra che la dimensione influenza lo scopo per cui un sistema è stato ridotto ad un modello.

Per progettare questo Parco Nazionale sono stati introdotti dei confini fisici. Quando dobbiamo fotografare un sistema, è sempre necessario inventare dei confini. Nel caso del parco possono essere artificiali, naturali o politici; non corrispondono a delle vere e proprie discontinuità fisiche o in qualche modo oggettive. I confini di questo e di tutti gli altri Parchi Naturali (nodi di un sistema più ampio), sono attraversati da popoli, dagli animali selvatici che migrano, dalle acque che scorrono in entrata e in uscita e nel sottosuolo, dagli effetti dallo sviluppo economico ai margini del parco, dal cambiamento climatico prodotto dai gas serra nell’atmosfera. Non esistono sistemi separati, in quanto la Terra, che appartiene anch’essa ad un sistema, è un continuum.

Il fiume Whanganui attraversa l’area protetta del relativo Parco Nazionale solo per una piccola parte dei 290 chilometri per cui si snoda nella North Island. Il confine del pensare ad azioni dirette su questo fiume, ad esempio relative al monitoraggio della qualità dell’acqua, si allarga all’intera asta fluviale e non alla sola parte tutelata, comprendendo anche il suolo che lo circonda e il suo bacino idrografico, ma non lo spartiacque successivo e l’intero ciclo idrogeologico planetario. Allo stesso modo per gestire un parco è necessario pensare a confini più ampi del perimetro ufficiale disegnato sulle mappe, senza arrivare però a considerare l’intero pianeta.

Confini geografici, ma soprattutto confini nei modelli di rappresentazione della realtà. Il Te Urewera, visto la rinuncia del Governo alla sua formale proprietà, è un lembo di terra che agli occhi della legge vale quanto un Tūhoe che lo abita. Il sistema si è trasformato, in quanto il mondo naturale ha acquistato nuove interconnessioni, perdendone altre, allargando e re-stringendo confini.

Da qui l’importanza e la difficoltà nel collocare i confini di un sistema, affinché si inneschino all’occasione le modifiche al suo comportamento, ovvero una variazione controllabile dei flussi di informazione tra le interconnessioni (utilizzando il linguaggio del Sustainability Institute).