Ridurre la CO2, aumentando l’occupazione

Ridurre la CO2, aumentando l’occupazione

20 Luglio 2022

© Bratislav Milenkovic, Everything factory
© Bratislav Milenkovic, Everything factory

L’economia industriale, fin dai suoi albori nel 1800, si è sviluppata attraverso una serie di grandi ondate di innovazioni succedutesi nel tempo: dall’applicazione del vapore alla produzione tessile, alle rivoluzioni nei trasporti ferroviari e marittimi, guidate dalle commesse statali, all’era dell’acciaio del petrolio e dell’elettricità, fino alla produzione fordista di automobili ed elettrodomestici “bianchi” e poi ai cambiamenti introdotti dalle tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione. Negli ultimi anni le innovazioni si stanno orientando verso un paradigma intersettoriale che alcuni etichettano con il termine di Green economy e che potrebbe offrire l’occasione per il rilancio del sistema produttivo e occupazionale.

La Green economy recentemente sta usufruendo di un quadro strategico e normativo che può accompagnarlo verso quel salto di paradigma finora realizzato solo parzialmente. La strategia europea del Green Deal, fortemente voluta dall’attuale Commissione insediata a Bruxelles, offre un contesto per un rilancio e un ripensamento delle priorità industriali e agricole continentali. Il Green Deal nasce come spinta istituzionale a fare dell’Unione europea il luogo dove gli obiettivi obbligatori di decarbonizzazione decisi nella COP di Parigi del 2015 si sposino con obiettivi di rilancio produttivo dell’Europa a 27. Inizialmente disegnato come strategia generale, nel tempo il Green Deal si è dotato di strumenti cogenti tra cui la Legge climatica, che definisce obbligatoriamente le tappe di decarbonizzazione europea, e il pacchetto Fit for 55. Quest’ultimo entra nel merito di scelte riferite a singoli settori, come ad esempio il comparto automotive a cui impone il divieto di vendere dopo il 2035 autoveicoli a motore endotermico (ossia alimentato da benzina e gasolio), disegnando la cornice per nuovi percorsi di ricerca e industrializzazione.

L’elemento culturalmente, oltre che economicamente, più caratterizzante di questi percorsi è il tentativo di integrare obiettivi che fino a pochi anni fa apparivano confliggenti. Scelte di tipo economico in contrasto con priorità di tutela ambientale hanno infatti contraddistinto le diverse fasi della rivoluzione industriale ricordate all’inizio, e il contrasto è divenuto sempre più aperto a partire dagli anni Settanta del ‘900 quando, in diversi paesi, ha cominciato a maturare una sensibilità e una pratica di natura ecologista. In Italia ancora oggi l’Ilva di Taranto è uno dei principali simboli della divergenza fra le “esigenze del PIL e dell’occupazione” da un lato e le esigenze di salvaguardia della salute degli esseri umani e dell’ambiente dall’altro.

Oggi lo scenario culturale è parzialmente diverso, ma cogliere l’obiettivo di integrare la sfida di mantenere il clima planetario entro limiti che lo rendano adatto alla vita umana e di aumentare al contempo ricchezza e occupazione richiede un salto di paradigma per il quale non bastano le  dichiarazioni di principio, e si rende necessario un apparato analitico e di politiche adeguato alla sfida del tempo.

Un primo livello analitico e operativo attiene al campo degli interventi trasversali o sistemici, ossia a quelle letture e a quelle proposte che si rivolgono a un sistema nella sua interezza. Come ogni salto di paradigma anche il pieno dispiegarsi di un’economia decarbonizzata ad alto impatto di occupazione qualificata, richiede un investimento adeguato di ricerca e sviluppo e di successiva industrializzazione di brevetti che collochino l’Europa e l’Italia nei punti della filiera dove si colloca il maggior valore aggiunto. La messa in posa dei pannelli fotovoltaici e la progettazione di pannelli fotovoltaici di ultima generazione non sono la stessa cosa. La prima produce basso valore aggiunto e occupazione pagata poco e precaria, mentre un’industria dei pannelli fotovoltaici avanzati, o delle batterie al litio o al sale ad alta densità energetica produce molto più valore aggiunto e un’occupazione di qualità ben diversa. Naturalmente la ricerca e sviluppo hanno bisogno di adeguati investimenti, e la successiva industrializzazione deve disporre di lavoratori adeguatamente formati e aggiornati.

Un secondo livello analitico e operativo attiene invece ai singoli settori economici, ciascuno dei quali ha caratteristiche specifiche e richiede interventi mirati per aumentare l’occupazione. Ad esempio l’agricoltura a bassa emissione di gas climalteranti e ad alto assorbimento di carbonio tende a richiedere un’intensità di lavoro maggiore e operatori più qualificati rispetto all’agricoltura industriale convenzionale. Ancora, la produzione di energia rinnovabile, rispetto alla produzione di energia fossile, secondo gli scenari dell’agenzia IRENA prefigura impatti occupazionali circa 2,8 superiori, offrendo una prospettiva virtuosa sia a livello emissivo, sia a livello lavoratvo. Diversi sono invece gli scenari relativi ad altri comparti: il settore metallurgico e metalmeccanico offre prospettive rispetto alle quali l’intervento pubblico di accompagnamento a una transizione a saldo occupazionale positivo è fortemente necessario.

EStà dal 2020 è impegnata a fornire strumenti analitici per il miglior bilanciamento possibile tra esiti di decarbonizzazione ed esiti occupazionali. Nel 2020 ha prodotto con l’Italian Climate Network (ICN) il report di ricerca “Il Green Deal conviene” (https://assesta.it/new-site/wp-content/uploads/2020/11/Green-Deal.-Benefici-occupazionali-1.pdf) nel quale ha condotto sia una ricerca sulle politiche trasversali, sia una ricerca sui singoli settori produttivi italiani, per valutare come massimizzare la decarbonizzazione aumentando l’occupazione. Oggi EStà, attraverso metodi di analisi originali, sta indagando due settori produttivi del territorio lombardo: l’agroforestale e l’automotive. Nel primo caso per valutare scenari carbonico-occupazionali relativi a scelte sul cosa e sul come coltivare nella regione: quando e dove è meglio destinare un terreno a foresta o a un determinato tipo di coltivazione? Con quali tecniche si ottengono quali risultati ? Che tipo di combinazione di impatti carbonico-occupazionali si produce con ciascuna scelta? Nel secondo caso per analizzare i rischi effettivi e i potenziali di creazione di nuovo impiego all’interno della transizione tra auto endotermica e auto elettrica: quali tipologie di veicoli permettono di rispettare gli obiettivi della legge climatica europea? In Lombardia quali occupati e in quali settori sono esposti alla transizione e ai rischi occupazionali? Quali nuovi posti di lavoro e in che settori è legittimo attendersi dal cambio di produzione automobilistica?

Il modello di analisi applicato da EStà  deriva da una serie di presupposti teorici e di metodo applicati nell’analisi empirica: l’analisi della struttura economica complessiva e della relazione tra domanda e offerta; lo studio sul livello di specializzazione produttiva dei sistemi economici come cartina di tornasole delle potenzialità per un’occupazione di alta qualità, l’esame dei dati primari ricombinati con il sapere degli attori chiave per fotografare in maniera dettagliata e realistica gli impatti sulle emissioni e sui posti di lavoro; l’utilizzo di indicatori primari e di indicatori ricombinati per offrire diversi livelli di sintesi della situazione esaminata; l’uso di domande di ricerca che rispondano ai bisogni di chi utilizzerà i risultati per prendere decisioni; l’uso di linguaggi testuali e infografici rigorosi, ma non tecnici, per facilitare le letture; le raccomandazioni di policy argomentate da evidenze scientifiche per connettere il mondo della ricerca ai bisogni socio-politici; la scenarizzazione per facilitare la presa di decisioni attraverso cruscotti integrati socioeconomico-ambientali. Un bagaglio teorico e metodologico in continuo sviluppo per  affrontare adeguatamente una fase probabilmente epocale dello sviluppo economico: il passaggio da un modello produttivo basato sull’energia fossile, ad un modello basato sulle energie rinnovabili. L’ultima volta che l’umanità ha cambiato il tipo di fonte energetica di riferimento è iniziata la Rivoluzione industriale.

 

 

La resilienza per le PMI tra digitalizzazione e territorio. Il caso dello Spazio Alpino.

“Come rafforzare la resilienza delle PMI nello Spazio Alpino?” è la domanda di ricerca che ha guidato lo studio di EStà all’interno del progetto AlpGov2 di EUSALP, l’agenda strategica della macro regione alpina.

Il report prodotto da EStà ha investigato i concetti di vulnerabilità e resilienza attraverso una metodologia di indagine mista. Da una parte, un set di indicatori socioeconomici offre un’ampia panoramica del sistema manufatturiero della regione alpina, dall’altra i risultati dei questionari alle PMI e delle interviste ai principali stakeholders del progetto indagano le capacità di innovare, di integrare l’economia circolare e la digitalizzazione nei processi produttivi e di costruire una rete di forti relazioni esterne.

I principali risultati delle analisi quanti-qualitative hanno permesso di costruire una matrice di vulnerabilità che restituisce in modo diretto e graficamente efficace il grado di vulnerabilità delle filiere produttive (quattro oggetto della nostra analisi: legno, chimica, meccanica-meccatronica e plastica) nelle diverse regioni della fascia alpina.

Il concetto di resilienza delle PMI è stato inoltre sviluppato attraverso l’analisi del contesto geopolitico e occupazionale delle regioni alpine, producendo un aggiornamento territoriale della Resilience Dashboard elaborata dalla Commissione Europea.

Il documento delinea un campo d’azione popolato da un ampio insieme di attori che agiscono sull’innovazione in campo normativo, tecnologico e green e che, nei prossimi anni, possono rendere la macroregione alpina protagonista dello sviluppo territoriale europeo.

 L’obiettivo del report è dunque quello di fornire indicazioni strategiche e organizzative alle imprese e strumenti di analisi chiari alle istituzioni e alle organizzazioni di rappresentanza al fine di migliorare la loro offerta di politiche e servizi a sostegno della resilienza.

Bergamo: analisi del sistema alimentare

Che cos’è il sistema del cibo di una città e perché bisogna studiarlo? E perché distinguere ciò che del sistema del cibo si sviluppa in una città come Bergamo da tutto ciò che succede nel mondo?

Il report redatto da EStà, grazie al contributo del Comune e degli attori locali intervistati, cerca di rispondere a queste domande di fondo, alle quali è connessa una serie di questioni e problemi che riguardano le diverse fasi del ciclo alimentare che sono affrontati quotidianamente da molti attori della città: la produzione locale di cibo, i canali di approvvigionamento più utilizzati dai cittadini, l’economia generata dal sistema alimentare, il cibo sprecato e quello recuperato per finalità solidaristiche, l’efficacia dell’educazione alimentare, l’attrattività di un territorio generata dal cibo.

Altre questioni sono in relazione, direttamente o indirettamente, con il modo con cui la città nel suo complesso vive il mondo del cibo. Si pensi ad esempio ai diversi impatti ambientali creati dal modo di produrre, trasportare, distribuire, consumare il cibo e smaltirne gli scarti (o lo spreco) in termini di uso del suolo e dell’acqua, di consumi energetici, di impatti sulla qualità dell’aria e sul clima. Si tratta solo di alcuni esempi che danno l’idea di quanto il cibo impatti su una serie molto ampia di attività in cui sono coinvolte non solo imprese e istituzioni, ma anche l’intera cittadinanza.

L’obiettivo principale di questo report è dunque quello di ricostruire un’immagine complessiva del sistema urbano del cibo. Ovvero intende descrivere il contesto socio-economico ed ambientale di riferimento e delle diverse fasi della filiera del cibo: produzione, trasformazione, logistica, distribuzione, consumo e gestione delle eccedenze e dei rifiuti.

L’economia circolare urbana

24 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

© Anna-Kaisa Jormanainen
© Anna-Kaisa Jormanainen
 

L’economia circolare urbana

Le città e le relative aree urbane non possono pensarsi come unità economiche autosufficienti, né questo avrebbe senso per ragioni naturali, economiche e culturali. Da un punto di vista naturale le città non possiedono le superfici agricole e acquatiche sufficienti per assicurarsi l’autonomia; da  un punto di vista economico la produzione di molti beni di origine industriale diviene  più conveniente se collocata al di fuori di aree urbane, costose in termini di affitti e poco funzionali in termini di spazi e di servizi connessi; da un punto di vista culturale gli scambi relativi a beni o servizi di tipo cultural-artistico o artigianale è utile che avvengano anche su scale territoriali ampie per favorire la conoscenza e il confronto arricchente con le diversità.

Una serie di flussi di entrata e di uscita invece è opportuno che seguano principi di circolarità su scala locale, per ragioni sia ambientali, sia sociali ed economiche e per questo la distinzione tra flussi ad orientamento circolare-locale, e flussi che interessano scale territoriali diverse è un’operazione che evita approcci autarchici o semplificati e offre una chiave di lettura verso cui orientare le interpretazioni e le relative scelte politiche.

L’economia circolare a scala locale ha senso laddove la produzione, il riuso e il riciclaggio sono più efficaci economicamente, socialmente e/o ambientalmente rispetto ad opzioni diverse. Questo avviene in una parte dei flussi di approvvigionamento quotidiano, ossia nel campo del cibo e dell’energia.

Mentre già da alcuni anni sono disponibili studi sull’impatto occupazionale dell’economia circolare, ad oggi è invece difficile stimarne l’impatto economico complessivo, in termini di aumento del valore aggiunto prodotto. Occorrerebbe considerare contemporaneamente l’influsso di una serie di variabili, spesso di segno diverso, quali: la diminuzione dell’acquisto di beni nuovi; la produzione di beni a valore aggiunto maggiore; lo sviluppo di servizi di recupero (latu sensu), alcuni dei quali potrebbero portare all’estrazione di sostanze chimiche o allo sviluppo di processi di trattamento dei rifiuti ad alto valore aggiunto, oggi ancora di difficile valutazione; la presenza o meno di barriere di diverso tipo affinché alcune evoluzioni possano avvenire o meno (ad esempio barriere normative sull’utilizzo di beni end of waste).

Sul piano socio-economico un effetto indiretto poco considerato negli studi di tipo macroeconomico è il ventaglio dei vantaggi per il consumatore. Conservare nel tempo le funzioni di uso di un oggetto, progettandolo per questo scopo e poi riparandolo e rigenerandolo, diminuisce la frequenza degli acquisti, abbassando non solo l’impatto ambientale, ma anche i relativi esborsi in denaro.

 

NB. Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio in inglese di M. Lepratti, coordinatore di Està, The circular economy, contenuto nella pubblicazione Training for Education, Learning and Leadership towards a new MEtropolitan Discipline: Inaugural Book.

Di seguito è possibile scaricare la pubblicazone integrale del progetto TELLme, esito di una collaborazione tra università, enti di ricerca e ong in Italia, Spagna, Messico e Argentina che contribuisce allo sviluppo di una “disciplina metropolitana” per comprendere, concettualizzare, progettare e gestire la dimensione metropolitana delle città. Il progetto, pubblicato da CIPPEC, ha coinvolto partner europei e latinoamericani, tra cui: Fondazione Politecnico di Milano, Politecnico di Milano, DOBA Faculty, Universidad de Sevilla, Cnr – Irea, Universidad Autónoma Metropolitana, Universidad de Cuyo e Universidad de Guadalajara.

 

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Webinar con attivisti per il clima

L’inedita sfida economico-sociale e ambientale che stiamo fronteggiando ci impone di trovare soluzioni trasformative che permettano di produrre ricchezza e occupazione di migliore qualità riducendo, al contempo, le emissioni di gas che alterano drammaticamente ambiente e clima.

I risultati del nostro studio, coordinato da @Italian Climate Network –  Il Green Deal conviene, benefici per economia e lavoro in Italia al 2030 – indicano quali sono gli investimenti richiesti e le condizioni per creare valore aggiunto e aumentare una buona occupazione.  Le argomentazioni di questa pubblicazione anticipano da mesi molti dei temi relativi alla transizione ecologica, ultimamente molto citata dai giornali.

Quali sono, quindi, i criteri fondamentali da osservare e i dati da tenere presente per la strutturazione di piani e progettualità di sviluppo sostenibili?  

Sentiamo forte la necessità di comunicare i nostri risultati, per questo motivo abbiamo organizzato, grazie alla collaborazione di @ACRA, un webinar formativo rivolto a ai giovani della Scuola di attivismo di @Mani Tese, all’interno del progetto @FoodWave.

In questa occasione, il 15 marzo, il gruppo di ricercatori che ha partecipato allo studio ha presentato i capisaldi del piano di investimenti del Green Deal europeo, indagando in particolare gli aspetti occupazionali ed economici, oltre che ambientali, che esso comporterà da oggi al 2030.

È stata un’occasione per interloquire con alcuni portavoce di una generazione che, più di altre, si sta assumendo la responsabilità delle proprie azioni e dell’impatto che queste determinano sull’ambiente. I ricercatori di Està hanno così avuto modo di rispondere alle loro domande, condividere osservazioni critiche relative ai temi di interesse dei partecipanti e dimostrarsi un affidabile punto di riferimento per l’approfondimento della materia. 

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Sviluppo e sostenibilità

10 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

@ Luke Best, Updates
@ Luke Best, Updates
 

Il rapporto tra industria e natura

La terra è un pianeta che dall’esterno non riceve alcun apporto di materia e che invece, grazie al sole, riceve continuamente e indefinitamente un’immensa quantità di energia. Al contempo gli abitanti del pianeta terra da due secoli si procurano le principali fonti di energia attraverso la depauperazione progressiva della quantità di materia data. Uno dei meccanismi chiave delle rivoluzioni industriali è celato dietro questo paradosso: pur disponendo di una quantità limitata di materia (fossile) ad alto potenziale inquinante, il mondo 200 anni fa ne ha fatto la base per alimentare un nuovo sistema produttivo a crescita rapidissima e potenzialmente illimitata.

Oggi il paradosso si pone con forza rinnovata. Due secoli di rivoluzione industriale hanno aumentato indefinitamente il potenziale produttivo e comunicativo dell’umanità connettendo i continenti, moltiplicando le rese agricole, stimolando in soli trent’anni (1945-’75) un aumento di ricchezza globale superiore a quello verificatosi nei mille anni precedenti. Negli stessi trent’anni si è avverato appieno quanto preconizzava già nel 1873 il geologo italiano Antonio Stoppani, quando proponeva di definire l’epoca che stava vivendo con il nome di era “antropozoica” a segnare il grande potenziale di dominio che l’essere umano stava acquisendo sul resto della natura. Ma la natura ha chiesto conti che sono diventati sempre più salati, manifestandosi tra l’altro nei disastri umani e ambientali di Seveso in Italia nel 1976, di Love Canal negli Usa nel 1978, di Bhopal in India nel 1984, di Cernobyl in Urss nel 1986, della Exxon Valdez in Alaska nel 1989, dell’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait nel 1991.

Davanti alla contraddizione tra economia e ambiente oggi nuova rivoluzione industriale è chiamata a riconnettere lavoro e natura in un percorso che riconcili dinamiche finora contrastanti, che abbassi il consumo di materia aumentando il contenuto intellettivo dei beni e dei servizi prodotti, che rispetti i limiti climatici senza porre limiti allo sviluppo della ricchezza sociale, che restituisca all’energia illimitata dallo spazio la preminenza sulla materia fossile e limitata utilizzata finora dagli esseri umani.

Ogni rivoluzione economica provoca terremoti, quella futura li provocherà se non avverrà, quelle passate hanno lasciato i loro splendori e i loro dolori:

Andate a dire ai buoi che vadan via/ che quel che han fatto è fatto/ e che oggi si ara prima col trattore/ E piange il cuore a tutti se li guardi/ che dopo che han lavorato mille anni/ adesso se ne vanno a testa bassa / dietro la corda lunga del macello (Tonino Guerra, traduzione dell’autore)

 

Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio di M. Lepratti, coordinatore di Està, Sviluppo e sostenibilità, contenuto nell’ebook di Fondazione Feltrinelli Progresso inconsapevole.

Il calcolo della raccolta differenziata

 

RACCOLTA DIFFERENZIATA IN ITALIA AL 61,35% NEL 2019, MA COSA SI NASCONDE DIETRO QUESTO DATO?

In Italia nel 2019, la raccolta differenziata ha raggiunto il 61,35%. Se il metodo di calcolo non fosse stato modificato nel 2016 tramite Decreto ministeriale la percentuale si fermerebbe solo al 55,56%.

La percentuale di raccolta differenziata dei RSU (rifiuti solidi urbani) ha subito una crescita notevole di anno in anno, ma non tutto è dovuto ad una più attenta differenziazione dei rifiuti.

La principale problematica nell’elaborazione dei dati sulla gestione dei RSU riguarda la corretta computazione dei rifiuti considerati differenziati. Di fatto, se si considerasse solo il dato di andamento della percentuale di raccolta differenziata si incorrerebbe in gravi anomalie, in quanto la computazione negli anni degli RSU ha subito variazioni. Infatti dal 2016 – per effetto del decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare “Linee guida per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani” (pubblicato su Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n. 146 del 24-6-2016) – ISPRA effettua le elaborazioni sulla produzione e raccolta differenziata dei RSU considerando come rifiuti differenziati anche i rifiuti ingombranti (200307), i rifiuti da spazzamento stradale (200303), rifiuti da C&D (costruzione e demolizione, 170107 e 170904) e gli scarti provenienti dalla selezione della multimateriale.

Dal 2016 quindi i dati sono difficilmente confrontabili con quelli precedenti. ESTà ha conseguentemente rielaborato i dati con un unico metodo di calcolo per poter utilizzare un’unica serie storica.

Come si può osservare, lo scostamento tra le due metodologie è notevole. La “percentuale RD registrata” rappresenta la percentuale ufficiale dichiarata da ISPRA, mentre la “percentuale RD con unica misurazione” rappresenta la rielaborazione di ESTà che, a partire dai dati ISPRA, non imputa tra i rifiuti differenziati quelli da pulizia stradale a recupero, gli ingombranti misti a recupero e i rifiuti da C&D. In Italia la percentuale di raccolta differenziata nel 2019 è risultata al 61,35% contro il 55,56% del metodo di calcolo unico utilizzato da ESTà. Il grande balzo in avanti degli ultimi anni non è quindi solo dovuto ad una miglior gestione dei rifiuti, ma principalmente ad una normativa che ne ha variato il calcolo.

La rilevazione di una percentuale di raccolta differenziata inferiore ai dati ufficiali non deve essere letta solo come dato negativo, ma anche come maggiore possibilità di migliorare l’intercettazione delle diverse frazioni merceologiche con conseguenti risparmi in termini di costi ed emissioni di CO2.

 

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Atlante delle risorse ambientali nell’area metropolitana di Dakar

9 Febbraio 2021

AUTORI

Andrea Calori, Giulia Tagliente, Marta Maggi

 

ECOLOGIA PARTECIPATIVA PER UN’AZIONE INCLUSIVA NELL’AREA METROPOLITANA DI DAKAR

L’iniziativa ECOPAS si inserisce nel programma tematico dell’Unione europea “Organizzazioni europee Società civile e Autorità locali 2014-2020″. Ha come scopo il  rafforzamento della capacità organizzativa delle Organizzazioni della società civile (OSC), sulla base di due pilastri fondamentali: la governance e la crescita inclusiva e sostenibile.

Una delle priorità di questo programma tematico è la cooperazione a livello nazionale, che mira a rafforzare il contributo delle OSC ai processi di governance e di sviluppo, in particolare come partner nella promozione dello sviluppo sociale. In Senegal il programma tematico identifica il coinvolgimento dei cittadini nella governance ambientale nella regione di Dakar, attraverso un processo inclusivo di sviluppo delle politiche. Questo permette ai cittadini, soprattutto ai giovani, di partecipare al dialogo e alla difesa di una gestione trasparente delle risorse naturali. Il programma mira anche allo sviluppo economico delle popolazioni attraverso il sostegno e la creazione di micro-imprese verdi (GME) nell’area obiettivo del progetto.

In breve, il progetto ECOPAS contribuisce alla protezione e al ripristino dell’ambiente e degli ecosistemi per migliorare l’ambiente di vita delle popolazioni di Dakar, precisamente nei comuni di Sam Notaire, Ndiarème Limamoulaye, Wakhinane Nimzatt e Yeumbeul Nord. Così, l’obiettivo generale di ECOPAS è quello di coinvolgere i cittadini della regione di Dakar nella governance ambientale e nella crescita inclusiva e sostenibile. L’obiettivo specifico è di rafforzare e conciliare gli sforzi ecologici delle periferie: Sam Notaire, Ndiarème Limamoulaye, Wakhinane Nimzatt e Yeumbeul Nord. Tra gli altri risultati, il progetto ECOPAS prevede una riflessione su una politica territoriale per la protezione delle zone costiere, una transizione agro-ecologica, così come l’uso sostenibile delle risorse naturali acqua, terra e boschi.

L’atlante è stato pensato per essere utilizzato da interlocutori locali con competenze tecniche, ma anche come strumento per stimolare la comprensione da parte di un pubblico non tecnico e supportare il coinvolgimento attivo di attori del territorio fra loro diversi nell’ambito di processi di consultazione e partecipazione.

L’atlante fa una sintesi comunicativa delle informazioni sullo stato degli elementi territoriali e ambientali che sono stati oggetto di studio nel corso del progetto nell’ambito di ricerche specifiche svolte in collaborazione con team senegalesi.  Queste ricerche hanno riguardato la qualità delle acque, l’uso del suolo, la copertura vegetativa, il sistema alimentare e le cosiddette “biotecnologie verdi e bianche”.  Di queste cinque ricerche EStà ha realizzato quella relativa al sistema alimentare.

Progetto: CISV, Fones, Ipsia, Sunugal, Hydroaid, UE

Testi: I testi contenuti in questa pubblicazione digitale sono stati rielaborati dai rapporti tematici del progetto Ecopas. Le parti senza rilavorazione sono state debitamente citate. La rielaborazione dei testi e la loro integrazione per il progetto di questo atlante sono da attribuire a Giulia Tagliente de EStà, Economia e Sostenibilità

Design grafico, layout, mappe e computer grafica: Giulia Tagliente, EStà – Economia e Sostenibilità

Editing e revisione linguistica: Caroline Bouchat e Diop Toure Nene

Perché migliorare la raccolta differenziata

15 Gennaio 2021

AUTORI

Emanuele Camisana, Francesca Federici, Massimiliano Lepratti

© Sean Loose, The Baker
© Sean Loose, The Baker
 

 

UNA DIFFERENZIAZIONE DEI RIFIUTI PIÙ EFFICIENTE COMPORTA 1 MILIARDO DI RISPARMI ANNUI PER I CITTADINI E 8 MILIONI DI TONNELLATE DI CO2  EQUIVALENTE IN MENO PER L’AMBIENTE.

I benefici che derivano da un’ottimale gestione dei rifiuti sono innumerevoli. Quanto potrebbero risparmiare cittadini in modo diretto? Quanta CO2 equivalente si eviterebbe di disperdere nell’ambiente?

I margini di miglioramento della gestione e raccolta dei rifiuti solidi urbani (RSU) sono ancora notevoli per il futuro prossimo. ESTà ha effettuato una stima puntuale sulla base dei dati ISPRA e dei coefficienti di Legambiente, calcolando per le tre frazioni di FORSU, carta/cartone e plastica i risultati che si potrebbero ottenere qualora si riuscisse ad intercettare la quasi totalità di ciò che ad oggi finisce ancora nell’indifferenziato (o negli ingombranti misti). 

Il risultato è stato determinato fissando come obiettivo da raggiungere, per la differenziazione delle tre frazioni citate, la composizione merceologica dei rifiuti indicata da ISPRA (sul totale dei RSU il 35,5% di organico, il 22,6% di carta/cartone e il 12,9% di imballaggi in plastica) e calcolando la differenza dei costi di gestione e smaltimento delle diverse frazioni rispetto all’indifferenziato. La frazione indifferenziata infatti determina maggiore inquinamento e maggiori costi a causa delle lavorazioni aggiuntive che il rifiuto deve subire e dello smaltimento in discarica o tramite incenerimento. Le altre frazioni, invece, permettono un minor inquinamento grazie al riciclo e risparmio di materia prima vergine, e minori costi anche grazie ai contributi che le aziende coinvolte nelle filiere di plastica e carta conferiscono al sistema CONAI.

 

Andare ad intercettare la parte delle 3 frazioni indicate che ancora non viene differenziata (3,6 milioni di tonnellate di FORSU, 3,4 di carta/cartone e 2,5 di plastica) determinerà un risparmio effettivo per i cittadini di circa 1 miliardo di euro (994,34 milioni) ed una riduzione delle emissioni di CO2 equivalente per circa 8 milioni di tonnellate (7,97 milioni). La corretta gestione di queste 9,55 milioni di tonnellate aggiuntive di rifiuti urbani consentirà anche un aumento occupazionale e di valore aggiunto.

È necessario sottolineare che il modello di analisi tiene conto della situazione attuale. Gli impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti attualmente in funzione non saranno sufficienti a soddisfare le esigenze del nostro paese: andranno costruiti progressivamente sempre più impianti e ampliati quelli esistenti, che con ogni probabilità utilizzeranno livelli tecnologici superiori. L’economia di scala, invece, consentirà l’abbattimento dei costi unitari di trattamento determinando un ulteriore risparmio. Il miglioramento andrà a ripercuotersi anche sugli impianti di smaltimento. Lo smaltimento in discarica dei RSU avrà un flusso minimo, portando a chiusura delle discariche con progressivi piani di ripristino ambientale dei siti. Anche gli impianti di incenerimento e coincenerimento subiranno una riduzione dei conferimenti.

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

29 Dicembre 2020

AUTORI

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano - EStà

© Terence Eduarte, 2016
© Terence Eduarte, 2016
 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 29.12.2020

  

La finalità di preservare la specie umana dai danni di un innalzamento della temperatura superiore a 1,5° (tra il 1880 e il 2100) sembra mettere d’accordo buona parte della pubblicistica nazionale, così come è indubbia la popolarità delle posizioni etiche di figure carismatiche come papa Francesco. Come sempre il problema più complesso non risiede nel campo dei principi generali, ma in quello delle scelte concrete che consentono o meno la realizzazione di quei principi. E su questo conviene provare a mettere un poco di ordine, superando il livello dell’aneddotica per porsi sul piano strutturale. La ricerca “Il green deal conviene” coordinata dall’Italian Climate Network e realizzata dall’associazione Està prova a porre quest’ordine, partendo dall’analisi degli obiettivi europei e nazionali. 

L’UE ha finalmente riconosciuto la necessità di ridurre del 55% tra il 1990 e il 2030 le emissioni dei gas ad effetto climalterante, un esito non scontato fino a poco tempo addietro e, sebbene inferiore a quanto richiesto dal Parlamento europeo (60%), estremamente sfidante per le scelte da compiere nel prossimo decennio. In Italia il piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) prodotto a livello interministeriale a fine 2019, ancor prima di poter essere attuato, risulta inadeguato in quanto costruito su un’ipotesi di riduzione dei gas climalteranti pari a meno del 40%.

La prima scelta concreta da compiere è quindi un adattamento degli obiettivi: l’Italia deve ridurre le sue emissioni di un 15% in più rispetto a quanto si riteneva l’anno scorso, ma questo 15% aggiuntivo si concentra tutto nei dieci anni tra il 2020 e il 2030. Per ottenere l’obiettivo le scelte principali possono concentrarsi sui soli aspetti ambientali, oppure possono combinare virtuosamente aspetti ambientali e aspetti socioeconomici, integrando diminuzione dei gas a effetto climalterante, aumento del valore aggiunto prodotto e aumento dell’occupazione. Questa seconda strada è ovviamente di gran lunga preferibile e su di essa si concentra la ricerca.

Il primo passaggio necessario è il riconoscimento dell’attuale struttura produttiva italiana e della sua dinamica recente. Il sistema produttivo nazionale ha conosciuto negli anni della crisi post 2008 un’involontaria svolta green a forte impatto sociale, dovuta alla chiusura di un alto numero di aziende manifatturiere altamente inquinanti e poco competitive. Nel periodo più vicino (2014-2019) il sistema nel suo complesso sembra aver iniziato una dinamica di disaccoppiamento: le emissioni diminuiscono (seppur di poco) a fronte di un (leggero) aumento di valore aggiunto e occupazione, dimostrando empiricamente come sia possibile diminuire l’impatto sul cambiamento climatico, aumentando allo stesso tempo PIL e occupazione.

Ma come rinforzare questa dinamica assolutamente troppo debole? I risultati di diverse ricerche convergono nel segnalare alcune priorità: il settore dei trasporti italiano risulta aver addirittura aumentato la sua quota di emissioni climalteranti dal 1990 al 2018 e il complesso degli edifici, in grandissima parte privati, ha avuto un eguale comportamento negativo, aggravato da una scarsa efficienza energetica. Entrambi questi settori assommano ciascuno circa un quarto delle attuali quote di produzione di CO2 equivalente; aggiungendo il settore della produzione e distribuzione dell’energia si arriva al 70% delle emissioni italiane.

A queste priorità è importante corrispondere azioni conseguenti e focalizzate sulle politiche industriali che, oltre a prospettare le migliori prestazioni in termini di riduzione delle emissioni, offrano le migliori opportunità in termini di crescita della ricchezza e dell’occupazione.

I sistemi di produzione e di consumo energetico basate sull’energia solare e combinati con una varietà di sistemi di accumulo sono senz’altro una risposta efficace sul piano climatico, ma perché diventino una risorsa per l’intero sistema economico ed occupazionale, non basta installarli. Occorre indirizzare il sistema produttivo del paese, a cominciare dai suoi enti di ricerca e dai suoi grandi attori a partecipazione pubblica, affinché l’Italia sia anche in grado di produrre e vendere gli strumenti tecnologicamente più avanzati per lo sfruttamento dell’intero ciclo del solare, evitando di arricchire solo i produttori di paesi esteri. Discorsi analoghi riguardano i sistemi di trasporto, i sistemi di costruzione e ristrutturazione delle abitazioni, nonché di produzione degli strumenti per lo sfruttamento e l’accumulo dell’energia eolica. Ognuno di questi interventi è l’occasione per creare una filiera nazionale tecnologicamente avanzata, ma le condizioni per farlo sono ciò che una politica industriale seria richiede: concentrarsi su poche grandi priorità ed evitare interventi a pioggia su prospettive di breve respiro (ad esempio quelle legate all’energia fossile altamente inquinante come il gas, necessariamente destinato all’abbandono in tempi non lunghi).

Una politica industriale, per il clima, per la ricchezza e per l’occupazione. L’occasione è ghiotta, la sfida non rinviabile.

 

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano

 

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