I numeri e la società

19 Maggio 2021

© Loulou and Tummie, 2015
© Loulou and Tummie, 2015
 

I numeri e la società

I fenomeni economici e sociali non possono e non sono ravvisabili nei numeri. La statistica descrittiva aiuta a studiare i fenomeni quantitativi e qualitativi della collettività, sebbene le condizioni di incertezza, cioè di incompleta conoscenza di essa o di una sua parte, assegnano alla logica e all’intelligenza un ruolo ancor più stringente. La semplice rilevazione di un numero, per esempio l’inflazione, non permette di catturare il fenomeno dell’inflazione. Occorre accoppiare sempre un’altra rilevazione per catturare e interpretare la crescita dei prezzi: possono crescere i profitti, il costo delle materie prime, oppure gli investimenti non hanno dato i risultati attesi. Possiamo anche sostenere che la crescita della massa monetaria ha permesso la crescita dei prezzi dei titoli quotati in borsa; è una crescita del valore dei titoli trattati o una crescita dei prezzi dei titoli trattati?

La dissertazione è un avvertimento ai naviganti circa le misure e gli indicatori. Sono sempre utili e funzionali all’interpretazione dei fenomeni, ma è solo grazie al metodo e all’intelligenza che i numeri possono raccontarci qualcosa di interessante, che rimane pur sempre parziale e verificabile (Popper e la discutibilità della tesi).

L’esperienza e il lavoro aiutano. Passo dopo passo permette di affinare le informazioni statistiche, di testarle e verificare la loro attendibilità (parziale) rispetto ai fenomeni economici e sociali.

EStà ha maturato alcune convinzioni rispetto ai numeri che più e meglio di altri aiutano la comprensione della società.  Sono un supporto prezioso per catturare il ben-essere della collettività ravvisabile nei cambiamenti climatici, occupazionali e di reddito disponibile. Rispetto al reddito disponibile utilizziamo sia la contabilità dei fattori, sia quella della domanda. Si tratta di due facce della stessa medaglia, ma con un significato economico abbastanza diverso. Il primo tende a misurare il Reddito dal lato del consumo, degli investimenti e della spesa pubblica; il secondo osserva la sua distribuzione, ovvero la ripartizione tra salari, profitto e rendita. Inoltre, EStà cerca sempre di comparare le informazioni statistiche con quelle di altre realtà socioeconomiche che meglio di altre possono essere associate al Paese o alla Regione Lombardia. Diversamente i “numeri” raccolti hanno una capacità esplicativa manifestamente contenuta. La comparazione è un tratto caratteristico del nostro lavoro.

Alcune ipotesi di ricerca sviluppate nel tempo e con un certo grado di raffinatezza, pur nei limiti sopra ricordati, suggeriscono che 1) alcune variabili sono più rappresentative di altre e 2) la combinazione tra due variabili permette di catturare (in parte) alcuni tratti dei fenomeni indagati. Solo per offrire una prima rappresentazione immaginiamo di voler catturare l’innovazione tecnologica e/o il contenuto tecnico degli investimenti. La prima potrebbe essere legata all’innovazione incorporata negli investimenti (investimenti su valore aggiunto), la seconda nell’intensità tecnologica (ricerca e sviluppo su investimenti). Naturalmente il fenomeno è più complesso, ma nel tempo ha mostrato una certa solidità, anche accademica, attraverso un certo numero di pubblicazioni.

Alcuni indicatori sono consolidati nella pubblicistica e difficilmente è possibile rinunciarvi:

  • Consumi
  • Investimenti
  • Spesa pubblica

A questi possiamo associare:

  • Reddito da lavoro;
  • Reddito da profitto;
  • Reddito da rendita, ancorché quest’ultima abbia non poche implicazioni economiche di difficile soluzione.

Come è facile intuire, è solo attraverso la comparazione con altre realtà socioeconomiche omogenee che queste variabili possono consegnarci un risultato adeguato a esprimere una qualsiasi valutazione. Inoltre, è necessario considerare le poste indicate utilizzando alcune sotto categorizzazioni: pro-capite, a prezzi costanti e/o correnti, in rapporto all’aggregato e via discorrendo.

EStà ha poi indagato nelle proprie ricerche la struttura economica, ovvero il contenuto quali-quantitativo dell’offerta. Di norma utilizziamo il valore aggiunto per addetto, sostanzialmente la produttività, nella consapevolezza che il valore aggiunto è soggetto a molte considerazioni. Infatti, il valore aggiunto, così come la sua dinamica, variazione su un anno base, è legato al posizionamento del settore rispetto alla domanda, al contenuto tecnico e tecnologico dell’output e alla specializzazione produttiva. Di norma tentiamo di catturare questi fenomeni in quanto restituiscono la “resilienza” del settore e del sistema economico nel suo insieme. Il processo potrebbe essere rappresentato come una approssimazione quali-quantitativa che assume ancor più significato se le informazioni considerate vengono comparate. In particolare:

  • Investimenti su valore aggiunto (reddito)
  • Ricerca e Sviluppo su investimenti che in alcuni casi può anche rappresentare la conoscenza incorporata nei beni capitali
  • Incidenza del valore aggiunto aggregato per settore che restituisce il quanto e il come una realtà economica è specializzata

Tale approccio è apparso un punto di partenza utile per catturare la grande sfida tecno-economica sottesa al Green deal e alla digitalizzazione. In effetti, se agli indicatori appena menzionati associamo le emissioni climalteranti (CO2 eq.)  possiamo “valutare” alcune correlazioni (link) tra le emissioni di CO2 con gli investimenti, la Ricerca e Sviluppo, il valore aggiunto e la specializzazione produttiva, ottenendo indicazioni su come un ambito settoriale e/o territoriale si colloca rispetto alla sfida cogente della decarbonizzazione. Più precisamente:

  • CO2 su valore aggiunto
  • CO2 su investimenti
  • CO2 su ricerca e sviluppo
  • CO2 su intensità tecnologica
  • CO2 su reddito da lavoro.

EStà si è anche cimentata in alcune stime circa gli effetti occupazionali e di valore aggiunto di investimenti, ricerca e sviluppo tesi a ridurre l’impatto climalterante della CO2. Una sfida che affonda le sue radici in approcci metodologi diversificati perché riflettono modi differenti di vedere la società, ma utili per costruire le stime, le quali rimangono tali. In effetti, un modello che catturi il potenziale paradigma tecno-economico non esiste, nemmeno nella teoria della complessità veicolata da Mauro Gallegati.

EStà non rappresenta il mondo per quello che è, piuttosto interpreta e suggerisce delle idee rispetto ad alcune variabili testate nel tempo. La materia economica e statistica non sono una scienza neutrale. Chi guarda il mondo ha sempre occhiali e fotografie da utilizzare.

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L’economia circolare urbana

24 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

© Anna-Kaisa Jormanainen
© Anna-Kaisa Jormanainen
 

L’economia circolare urbana

Le città e le relative aree urbane non possono pensarsi come unità economiche autosufficienti, né questo avrebbe senso per ragioni naturali, economiche e culturali. Da un punto di vista naturale le città non possiedono le superfici agricole e acquatiche sufficienti per assicurarsi l’autonomia; da  un punto di vista economico la produzione di molti beni di origine industriale diviene  più conveniente se collocata al di fuori di aree urbane, costose in termini di affitti e poco funzionali in termini di spazi e di servizi connessi; da un punto di vista culturale gli scambi relativi a beni o servizi di tipo cultural-artistico o artigianale è utile che avvengano anche su scale territoriali ampie per favorire la conoscenza e il confronto arricchente con le diversità.

Una serie di flussi di entrata e di uscita invece è opportuno che seguano principi di circolarità su scala locale, per ragioni sia ambientali, sia sociali ed economiche e per questo la distinzione tra flussi ad orientamento circolare-locale, e flussi che interessano scale territoriali diverse è un’operazione che evita approcci autarchici o semplificati e offre una chiave di lettura verso cui orientare le interpretazioni e le relative scelte politiche.

L’economia circolare a scala locale ha senso laddove la produzione, il riuso e il riciclaggio sono più efficaci economicamente, socialmente e/o ambientalmente rispetto ad opzioni diverse. Questo avviene in una parte dei flussi di approvvigionamento quotidiano, ossia nel campo del cibo e dell’energia.

Mentre già da alcuni anni sono disponibili studi sull’impatto occupazionale dell’economia circolare, ad oggi è invece difficile stimarne l’impatto economico complessivo, in termini di aumento del valore aggiunto prodotto. Occorrerebbe considerare contemporaneamente l’influsso di una serie di variabili, spesso di segno diverso, quali: la diminuzione dell’acquisto di beni nuovi; la produzione di beni a valore aggiunto maggiore; lo sviluppo di servizi di recupero (latu sensu), alcuni dei quali potrebbero portare all’estrazione di sostanze chimiche o allo sviluppo di processi di trattamento dei rifiuti ad alto valore aggiunto, oggi ancora di difficile valutazione; la presenza o meno di barriere di diverso tipo affinché alcune evoluzioni possano avvenire o meno (ad esempio barriere normative sull’utilizzo di beni end of waste).

Sul piano socio-economico un effetto indiretto poco considerato negli studi di tipo macroeconomico è il ventaglio dei vantaggi per il consumatore. Conservare nel tempo le funzioni di uso di un oggetto, progettandolo per questo scopo e poi riparandolo e rigenerandolo, diminuisce la frequenza degli acquisti, abbassando non solo l’impatto ambientale, ma anche i relativi esborsi in denaro.

 

NB. Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio in inglese di M. Lepratti, coordinatore di Està, The circular economy, contenuto nella pubblicazione Training for Education, Learning and Leadership towards a new MEtropolitan Discipline: Inaugural Book.

Di seguito è possibile scaricare la pubblicazone integrale del progetto TELLme, esito di una collaborazione tra università, enti di ricerca e ong in Italia, Spagna, Messico e Argentina che contribuisce allo sviluppo di una “disciplina metropolitana” per comprendere, concettualizzare, progettare e gestire la dimensione metropolitana delle città. Il progetto, pubblicato da CIPPEC, ha coinvolto partner europei e latinoamericani, tra cui: Fondazione Politecnico di Milano, Politecnico di Milano, DOBA Faculty, Universidad de Sevilla, Cnr – Irea, Universidad Autónoma Metropolitana, Universidad de Cuyo e Universidad de Guadalajara.

 

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Webinar con attivisti per il clima

L’inedita sfida economico-sociale e ambientale che stiamo fronteggiando ci impone di trovare soluzioni trasformative che permettano di produrre ricchezza e occupazione di migliore qualità riducendo, al contempo, le emissioni di gas che alterano drammaticamente ambiente e clima.

I risultati del nostro studio, coordinato da @Italian Climate Network –  Il Green Deal conviene, benefici per economia e lavoro in Italia al 2030 – indicano quali sono gli investimenti richiesti e le condizioni per creare valore aggiunto e aumentare una buona occupazione.  Le argomentazioni di questa pubblicazione anticipano da mesi molti dei temi relativi alla transizione ecologica, ultimamente molto citata dai giornali.

Quali sono, quindi, i criteri fondamentali da osservare e i dati da tenere presente per la strutturazione di piani e progettualità di sviluppo sostenibili?  

Sentiamo forte la necessità di comunicare i nostri risultati, per questo motivo abbiamo organizzato, grazie alla collaborazione di @ACRA, un webinar formativo rivolto a ai giovani della Scuola di attivismo di @Mani Tese, all’interno del progetto @FoodWave.

In questa occasione, il 15 marzo, il gruppo di ricercatori che ha partecipato allo studio ha presentato i capisaldi del piano di investimenti del Green Deal europeo, indagando in particolare gli aspetti occupazionali ed economici, oltre che ambientali, che esso comporterà da oggi al 2030.

È stata un’occasione per interloquire con alcuni portavoce di una generazione che, più di altre, si sta assumendo la responsabilità delle proprie azioni e dell’impatto che queste determinano sull’ambiente. I ricercatori di Està hanno così avuto modo di rispondere alle loro domande, condividere osservazioni critiche relative ai temi di interesse dei partecipanti e dimostrarsi un affidabile punto di riferimento per l’approfondimento della materia. 

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Sviluppo e sostenibilità

10 Marzo 2021

AUTORE

Massimiliano Lepratti

@ Luke Best, Updates
@ Luke Best, Updates
 

Il rapporto tra industria e natura

La terra è un pianeta che dall’esterno non riceve alcun apporto di materia e che invece, grazie al sole, riceve continuamente e indefinitamente un’immensa quantità di energia. Al contempo gli abitanti del pianeta terra da due secoli si procurano le principali fonti di energia attraverso la depauperazione progressiva della quantità di materia data. Uno dei meccanismi chiave delle rivoluzioni industriali è celato dietro questo paradosso: pur disponendo di una quantità limitata di materia (fossile) ad alto potenziale inquinante, il mondo 200 anni fa ne ha fatto la base per alimentare un nuovo sistema produttivo a crescita rapidissima e potenzialmente illimitata.

Oggi il paradosso si pone con forza rinnovata. Due secoli di rivoluzione industriale hanno aumentato indefinitamente il potenziale produttivo e comunicativo dell’umanità connettendo i continenti, moltiplicando le rese agricole, stimolando in soli trent’anni (1945-’75) un aumento di ricchezza globale superiore a quello verificatosi nei mille anni precedenti. Negli stessi trent’anni si è avverato appieno quanto preconizzava già nel 1873 il geologo italiano Antonio Stoppani, quando proponeva di definire l’epoca che stava vivendo con il nome di era “antropozoica” a segnare il grande potenziale di dominio che l’essere umano stava acquisendo sul resto della natura. Ma la natura ha chiesto conti che sono diventati sempre più salati, manifestandosi tra l’altro nei disastri umani e ambientali di Seveso in Italia nel 1976, di Love Canal negli Usa nel 1978, di Bhopal in India nel 1984, di Cernobyl in Urss nel 1986, della Exxon Valdez in Alaska nel 1989, dell’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait nel 1991.

Davanti alla contraddizione tra economia e ambiente oggi nuova rivoluzione industriale è chiamata a riconnettere lavoro e natura in un percorso che riconcili dinamiche finora contrastanti, che abbassi il consumo di materia aumentando il contenuto intellettivo dei beni e dei servizi prodotti, che rispetti i limiti climatici senza porre limiti allo sviluppo della ricchezza sociale, che restituisca all’energia illimitata dallo spazio la preminenza sulla materia fossile e limitata utilizzata finora dagli esseri umani.

Ogni rivoluzione economica provoca terremoti, quella futura li provocherà se non avverrà, quelle passate hanno lasciato i loro splendori e i loro dolori:

Andate a dire ai buoi che vadan via/ che quel che han fatto è fatto/ e che oggi si ara prima col trattore/ E piange il cuore a tutti se li guardi/ che dopo che han lavorato mille anni/ adesso se ne vanno a testa bassa / dietro la corda lunga del macello (Tonino Guerra, traduzione dell’autore)

 

Il contenuto di questo articolo è tratto dal saggio di M. Lepratti, coordinatore di Està, Sviluppo e sostenibilità, contenuto nell’ebook di Fondazione Feltrinelli Progresso inconsapevole.

Il calcolo della raccolta differenziata

11 Febbraio 2021

AUTORE

Emanuele Camisana

 

RACCOLTA DIFFERENZIATA IN ITALIA AL 61,35% NEL 2019, MA COSA SI NASCONDE DIETRO QUESTO DATO?

In Italia nel 2019, la raccolta differenziata ha raggiunto il 61,35%. Se il metodo di calcolo non fosse stato modificato nel 2016 tramite Decreto ministeriale la percentuale si fermerebbe solo al 55,56%.

La percentuale di raccolta differenziata dei RSU (rifiuti solidi urbani) ha subito una crescita notevole di anno in anno, ma non tutto è dovuto ad una più attenta differenziazione dei rifiuti.

La principale problematica nell’elaborazione dei dati sulla gestione dei RSU riguarda la corretta computazione dei rifiuti considerati differenziati. Di fatto, se si considerasse solo il dato di andamento della percentuale di raccolta differenziata si incorrerebbe in gravi anomalie, in quanto la computazione negli anni degli RSU ha subito variazioni. Infatti dal 2016 – per effetto del decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare “Linee guida per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani” (pubblicato su Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n. 146 del 24-6-2016) – ISPRA effettua le elaborazioni sulla produzione e raccolta differenziata dei RSU considerando come rifiuti differenziati anche i rifiuti ingombranti (200307), i rifiuti da spazzamento stradale (200303), rifiuti da C&D (costruzione e demolizione, 170107 e 170904) e gli scarti provenienti dalla selezione della multimateriale.

Dal 2016 quindi i dati sono difficilmente confrontabili con quelli precedenti. ESTà ha conseguentemente rielaborato i dati con un unico metodo di calcolo per poter utilizzare un’unica serie storica.

Come si può osservare, lo scostamento tra le due metodologie è notevole. La “percentuale RD registrata” rappresenta la percentuale ufficiale dichiarata da ISPRA, mentre la “percentuale RD con unica misurazione” rappresenta la rielaborazione di ESTà che, a partire dai dati ISPRA, non imputa tra i rifiuti differenziati quelli da pulizia stradale a recupero, gli ingombranti misti a recupero e i rifiuti da C&D. In Italia la percentuale di raccolta differenziata nel 2019 è risultata al 61,35% contro il 55,56% del metodo di calcolo unico utilizzato da ESTà. Il grande balzo in avanti degli ultimi anni non è quindi solo dovuto ad una miglior gestione dei rifiuti, ma principalmente ad una normativa che ne ha variato il calcolo.

La rilevazione di una percentuale di raccolta differenziata inferiore ai dati ufficiali non deve essere letta solo come dato negativo, ma anche come maggiore possibilità di migliorare l’intercettazione delle diverse frazioni merceologiche con conseguenti risparmi in termini di costi ed emissioni di CO2.

 

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

11 Luglio 2019

 

Le analisi che spiegano il ritardo economico italiano e lombardo con il costo del lavoro, la rigidità del mercato, l’invadenza dell’economia pubblica e, peggio ancora, con la mancanza di tutela dei prodotti made in Italy (Lombardy), appaiono di breve respiro e insoddisfacenti. I problemi di struttura della manifattura nazionale e lombarda hanno infatti radici lontane e persistenti che datano almeno all’inizio degli anni ‘90. Per inquadrare e interpretare correttamente la complessità occorre quindi partire dalle domande giuste.

Il report è costruito su due parti distinte ma comunicanti. Dopo la presentazione del modello macroeconomico interpretativo, la prima parte del lavoro si domanda innanzitutto quale sia il ruolo esercitato dall’Europa nel sistema economico, per le politiche europee recenti in campo industriale e per la ricerca e sviluppo, a questo si affianca uno studio sui brevetti, evidenziando la coerenza tra i due campi e il posizionamento dell’Italia e della Lombardia nel secondo.

La seconda parte del lavoro delinea il posizionamento della manifattura di Italia e Lombardia nel consesso europeo, comparando in particolare la produzione dei beni capitali e l’intensità tecnologica degli investimenti, collegando queste evidenze con il problema del vincolo tecnologico estero. La seconda parte continua con l’analisi della manifattura lombarda per provincia, e della polarizzazione centro-periferia. Le ultime pagine (conclusioni) delineano le questioni su cui sarebbe il caso che la politica, gli imprenditori e il sindacato inizino a lavorare.

Il metodo sotteso all’indagine è quello comparativo: tutte le statistiche vengono confrontate tra paesi e regioni; diversamente sarebbe impossibile rispondere alla domanda generale alla base di questa sezione, ossia se la Lombardia sia una regione strutturalmente europea, oppure una regione ai margini dello sviluppo continentale.

↓ Scarica la ricerca La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

25 Giugno 2019

 

Milano 27 giugno 2019 h. 10

Auditorium Levi dell’Università Statale

Via Valvassori  Peroni 21

Discussione della ricerca

“La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda”.

La Fiom CGIL Lombardia, con la collaborazione scientifica dell’associazione Economia e Sostenibilità (EStà), ha svolto una ricerca sull’industria lombarda. L’analisi è stata condotta attraverso due distinte prospettive, una di taglio macroeconomico e una di taglio microeconomico. La prima ha analizzato i dati relativi alla produzione metalmeccanica regionale, ponendoli in relazione con le politiche di ricerca dell’Unione europea e con i risultati di altre regioni e stati continentali. La seconda ha analizzato per l’intero periodo 2008 – 2017 i dati di bilancio delle aziende metalmeccaniche lombarde, ponendo in relazione valore aggiunto, costo del lavoro, occupazione, investimenti immateriali.

 

Programma

h. 9.45 Saluti dal rettore dell’Università statale

h. 10 Introduzione di Alessandro Pagano – FIOM CGIL Lombardia e Andrea Di Stefano – EStà.

h 10.15 Prima sessione: “Crescita, specializzazione manifatturiera e paradigma tecnologico: il caso italiano e lombardo a confronto con l’Europa”

·       Presentazione di Roberto Romano – CGIL Lombardia – EStà

·       Discussione con, Silvia Spera – Segreteria CGIL Lombardia; Gianni Pietro Girotto – Presidente Commissione Industria, Commercio, Turismo del Senato*; Mario Noera – Università Bocconi.

 

h. 11.15 Seconda sessione: “Valore aggiunto, redditività e lavoro nelle imprese metalmeccaniche lombarde”

·       Presentazione di Alessandro Santoro – Università Bicocca.

·       Discussione con Attilio Fontana – Presidente Regione Lombardia*, Elena Lattuada – Segretario Generale CGIL Lombardia; Livio Romano – Centro Studi Confindustria; Anna Maria Variato – Università di Bergamo.

h. 12.15 Conclusioni di Francesca Re David – Fiom CGIL.

Modera Massimiliano Lepratti – EStà

* In attesa di conferma

Global minds

© AQ studio (Adam Quest), 2014

Global minds

5 Gennaio 2017

© AQ studio (Adam Quest), 2014
© AQ studio (Adam Quest), 2014
 
La realtà in cui siamo immersi è complessa e fonde in un tutto indistinto elementi temporali, spaziali, materiali, cromatici, quantitativi, acustici, olfattivi… Per renderla più comprensibile la mente umana la analizza, ossia la separa in categorie più circoscritte. Questo procedimento è alla base di molti concetti che gli esseri umani usano quotidianamente, quali i colori, i numeri, le grandezze etc. Lo stesso procedimento è all’origine delle cosiddette “discipline” con molte delle quali ciascuno tra noi familiarizza a partire dalla scuola e dall’insegnamento separato in ore di “storia” , di “geografia” , di “letteratura”, di “economia” etc. Le categorie sono pertanto indispensabili per rendere la realtà comprensibile alle nostre menti, ma la loro definizione e il loro uso implicano un’analisi critica intorno a tre grosse questioni. La prima è la necessità di riconoscerne il carattere non oggettivo. Le discipline si sforzano di trovare una propria base condivisa (l’epistemologia), ma si tratta di uno sforzo in continuo aggiornamento, non di un risultato. Nella categoria “colori” vi sono popoli che chiamano “bianco” quello che altri popoli suddividono in decine di altre categorie. Nella categoria “tempi verbali” vi sono popoli che usano una o due forme di tempo presente, altri che ne usano decine. La seconda questione, è collegata con la prima. Ogni cultura sviluppa alcune categorie di pensiero e le radica al punto tale che i singoli perdono di vista il carattere di costruzione artificiale e tendono a considerarle naturali. Un esempio tra tutti è la tendenza disgiuntiva del nostro modo di ragionare, tendenza radicatasi nel cosiddetto “Occidente” a partire dagli ultimi tre-quattro secoli. Dalla diffusione del razionalismo cartesiano in poi le menti di chi cresce in questa parte del mondo tendono automaticamente a pensare in modo “separante”. L’aut/aut, ossia il pensare che una cosa o è in un modo o altrimenti deve essere in un altro, è un tratto del nostro modo di ragionare. In realtà molto spesso caratteristiche contraddittorie o addirittura opposte possono convivere nello stesso oggetto (o soggetto), così come insegnano i grandi pensatori orientali: ciascuno tra noi può essere razionale ed emotivo, affettuoso o collerico in funzione della specifica situazione in cui si trova. Il terzo problema è il più grave ed è a sua volta collegato con il precedente. Se la nostra mente per conoscere la realtà ha bisogno di separarla in categorie, la realtà nella sua essenza è un tutto unico e inseparabile. Pertanto, dopo aver affrontato il momento dell’analisi, la nostra mente dovrebbe concludere il processo cognitivo con il momento della sintesi, attraverso il quale ridare alla realtà il suo aspetto effettivo. Ma questo solitamente non avviene. Poche persone vengono educate a pensare sia in modo analitico, sia in modo sintetico, a separare il locale dal globale, le discipline le une dalle altre, le cause dagli effetti, e poi a ricondurre a sintesi il globale, l’interdisciplinare, le retroazioni.   Il rinforzo e la penetrazione capillare del modello analitico (separatore) è stato al contempo effetto e causa del tipo di struttura sociale ed economica che si è diffusa durante i decenni dell’industrializzazione di massa. Negli anni del fordismo e del taylorismo l’organizzazione del lavoro era fortemente compartimentata: la differenza tra tempi di lavoro e tempi di vita era netta, i ruoli lavorativi rigidi e tendenzialmente invariabili, la specializzazione prevaleva sia nelle strutture sociali (la famiglia in primis), sia nelle strutture produttive. La crisi del fordismo ha modificato profondamente l’organizzazione della realtà, e il nostro modo di pensarla ha risentito dell’avvento dei mezzi digitali che permettendo l’accesso immediato a un’infinità di dati e di contatti, suggerisce un modo di pensare non lineare e chiuso, ma ipertestuale, multimediale e aperto. In questo nuovo contesto l’idea di global mind, già promossa da Edgar Morin diversi decenni fa, trova un terreno più fertile. Essere una mente globale oggi non significa solo avere conoscenze in tanti campi disciplinari diversi, significa soprattutto essere in grado di connetterle in una lettura sintetica della realtà, che osservi i fenomeni da tanti punti di vista, ma sia contemporaneamente in grado di restituire in modo organizzato il prisma che ha composto. Il valore di queste letture sintetiche è molto maggiore della somma di tante letture separate; una mente globale agisce sulle inefficienze della separazione disciplinare, traducendo i linguaggi e i sistemi di codificazione specifici delle differenti discipline, in una lettura dove i salti sono appianati e le interconnessioni rese evidenti. Questo permette ad una mente globale di essere molto più efficiente nella progettazione di nuove idee, nuove attività e nella visione di scenari futuri. Sia la progettazione, sia la visione di scenari per loro natura sono attività chiamate a confrontarsi con una quantità di variabili appartenenti a campi diversi; tradurne gli iati in ponti e armonizzare problemi eterogenei verso soluzioni logicamente orientate, è uno dei tipi di lavoro in cui le global minds possono portare maggiore valore aggiunto. La capacità di muoversi in campi differenti aumenta inoltre la capacità di innovare e di rispondere creativamente ai problemi. Il controllo di un maggior numero di attrezzi mentali e l’abitudine a ricombinarli dota infatti le global minds di un ventaglio di possibilità superiore a menti abituate a ragionare in modo strettamente disciplinare. Spesso le riflessioni provenienti dal pensiero ambientalista sono un nutrimento per le global minds. La necessità di affrontare problemi complessi e non scomponibili in laboratorio come quelli posti dall’analisi degli ecosistemi è un’ottima palestra. Non a caso l’ONU ha creato il gruppo multidisciplinare dell’IPCC per studiare il problema dei cambiamenti climatici. Non a caso “innovazione eco-sistemica” può essere la definizione per uno dei campi d’azione privilegiati per una mente globale.

Infrastrutture per la mobilità cicloturistica come occasione di coesione territoriale

© David Doran, Modus

Infrastrutture per la mobilità cicloturistica come occasione di coesione territoriale

1 Ottobre 2016

© David Doran, Modus
© David Doran, Modus
 

Il cicloturismo è una forma di turismo focalizzata sulla bicicletta, come mezzo di trasporto e come scopo stesso della vacanza. In questa pratica turistica destinazione e viaggio stesso tendono ad essere obiettivi egualmente importanti. Ogni anno in Europa vengono effettuati 2,29 miliardi di viaggi di questo tipo, per un valore generato totale di 44 miliardi di euro. L’80% del valore, pari a 35 miliardi di euro, è costituito da escursioni giornaliere praticate dai residenti dei territori attraversati dalle infrastrutture cicloturistiche, mentre il 20% rimanente (9 miliardi di euro annui in Europa) è costituito da escursioni che prevedono almeno una notte fuori casa.

Diverse realtà territoriali in Francia, Germania, Austria e Trentino hanno pianificato infrastrutture cicloturistiche a lunga percorrenza, ma il mondo dell’attrattività territoriale sta diventando sempre più complesso e competitivo. Questa complessità è fonte di opportunità, per coglierle appare fondamentale porre un’infrastruttura al centro di un sistema più ampio, capace di coinvolgere un insieme coordinato di politiche pubbliche per creare occasioni di sviluppo economico che aumentino il valore generato e la sua diffusione sociale. Trasformare le ciclovie in un elemento identitario significa agire sul place branding di un territorio, intercettando ed incrementando i flussi di cicloturisti per produrre un valore aggiunto diffuso.

Nell’ottica delle applicazioni innovative di EStà le Ciclovie rappresentano dunque un bene pubblico esperienziale al centro di politiche di coesione territoriale per la mobilità, lo sviluppo economico e l’ambiente, realizzate attraverso la messa a sistema dell’attività ordinaria e di progetti innovativi realizzati degli attori locali e sovralocali.

Questo approccio è stato sperimentato da EStà all’interno dello studio di fattibilità per la Ciclovia Olona Lura, la proposta di un’infrastruttura cicloturistica leggera lungo i fiumi Olona e Lura, nel territorio compreso tra Varese, Como e Milano, in grado di connettere il confine tra Italia e Svizzera, all’interno di un itinerario europeo già esistente da Strasburgo a Como (Eurovelo5). Il progetto, sviluppato da un ampio partenariato di attori istituzionali locali e cofinanziato dalla Fondazione Cariplo, ha analizzato la fattibilità di uno scenario per realizzare l’infrastruttura come elemento di coesione territoriale, intorno alla quale sviluppare politiche per la mobilità, lo sviluppo economico e l’ambiente.
Obiettivo del progetto è il completamento dell’infrastruttura in larga parte già esistente (oltre il 48%), unendo in un unico anello diversi itinerari già presenti lungo i due fiumi. Realizzare la ciclovia per la mobilità ed il tempo libero dei residenti, arricchirà anche l’offerta turistica per la scoperta del patrimonio territoriale, con i numerosi luoghi della cultura, i due siti UNESCO ed il paesaggio pedemontano dei 7 Parchi Locali.

Nello studio di fattibilità EStà ha analizzato e mappato un’ampia varietà di elementi strutturali e di fenomeni potenzialmente legati alla costruzione della Ciclovia Olona Lura, con questo approccio sono emerse anche le relazioni di reciprocità tra tutti gli elementi: infrastrutture esistenti, flussi cicloturistici e turistici, criticità, intermodalità, paesaggio, beni culturali, dinamiche ambientali, servizi cicloturistici, economie territoriali, attori istituzionali, politiche territoriali, competenze normative.
L’analisi di contesto è il preludio per la definizione di uno scenario di sviluppo che dovrà passare da un processo di coesione e governance territoriale, per far sì che gli attori locali agiscano in modo coordinato, all’interno della cornice della ciclovia per la sua realizzazione unitaria.

Progettare Ciclovie attraverso masterplan sistemici ed integrati

© David Doran, Modus

In un mondo sempre più competitivo, realizzare infrastrutture significa allestire un valore aggiunto che, partendo per esempio dalla mobilità ciclistica, possa estendersi a diverse politiche pubbliche quali sviluppo economico, ambiente e coesione territoriale, con l’obiettivo di incrementarne gli impatti. La complessità di tale infrastruttura può essere ben sintetizzata all’interno di un masterplan sistemico.

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