I numeri e la società

19 Maggio 2021

© Loulou and Tummie, 2015
© Loulou and Tummie, 2015
 

I numeri e la società

I fenomeni economici e sociali non possono e non sono ravvisabili nei numeri. La statistica descrittiva aiuta a studiare i fenomeni quantitativi e qualitativi della collettività, sebbene le condizioni di incertezza, cioè di incompleta conoscenza di essa o di una sua parte, assegnano alla logica e all’intelligenza un ruolo ancor più stringente. La semplice rilevazione di un numero, per esempio l’inflazione, non permette di catturare il fenomeno dell’inflazione. Occorre accoppiare sempre un’altra rilevazione per catturare e interpretare la crescita dei prezzi: possono crescere i profitti, il costo delle materie prime, oppure gli investimenti non hanno dato i risultati attesi. Possiamo anche sostenere che la crescita della massa monetaria ha permesso la crescita dei prezzi dei titoli quotati in borsa; è una crescita del valore dei titoli trattati o una crescita dei prezzi dei titoli trattati?

La dissertazione è un avvertimento ai naviganti circa le misure e gli indicatori. Sono sempre utili e funzionali all’interpretazione dei fenomeni, ma è solo grazie al metodo e all’intelligenza che i numeri possono raccontarci qualcosa di interessante, che rimane pur sempre parziale e verificabile (Popper e la discutibilità della tesi).

L’esperienza e il lavoro aiutano. Passo dopo passo permette di affinare le informazioni statistiche, di testarle e verificare la loro attendibilità (parziale) rispetto ai fenomeni economici e sociali.

EStà ha maturato alcune convinzioni rispetto ai numeri che più e meglio di altri aiutano la comprensione della società.  Sono un supporto prezioso per catturare il ben-essere della collettività ravvisabile nei cambiamenti climatici, occupazionali e di reddito disponibile. Rispetto al reddito disponibile utilizziamo sia la contabilità dei fattori, sia quella della domanda. Si tratta di due facce della stessa medaglia, ma con un significato economico abbastanza diverso. Il primo tende a misurare il Reddito dal lato del consumo, degli investimenti e della spesa pubblica; il secondo osserva la sua distribuzione, ovvero la ripartizione tra salari, profitto e rendita. Inoltre, EStà cerca sempre di comparare le informazioni statistiche con quelle di altre realtà socioeconomiche che meglio di altre possono essere associate al Paese o alla Regione Lombardia. Diversamente i “numeri” raccolti hanno una capacità esplicativa manifestamente contenuta. La comparazione è un tratto caratteristico del nostro lavoro.

Alcune ipotesi di ricerca sviluppate nel tempo e con un certo grado di raffinatezza, pur nei limiti sopra ricordati, suggeriscono che 1) alcune variabili sono più rappresentative di altre e 2) la combinazione tra due variabili permette di catturare (in parte) alcuni tratti dei fenomeni indagati. Solo per offrire una prima rappresentazione immaginiamo di voler catturare l’innovazione tecnologica e/o il contenuto tecnico degli investimenti. La prima potrebbe essere legata all’innovazione incorporata negli investimenti (investimenti su valore aggiunto), la seconda nell’intensità tecnologica (ricerca e sviluppo su investimenti). Naturalmente il fenomeno è più complesso, ma nel tempo ha mostrato una certa solidità, anche accademica, attraverso un certo numero di pubblicazioni.

Alcuni indicatori sono consolidati nella pubblicistica e difficilmente è possibile rinunciarvi:

  • Consumi
  • Investimenti
  • Spesa pubblica

A questi possiamo associare:

  • Reddito da lavoro;
  • Reddito da profitto;
  • Reddito da rendita, ancorché quest’ultima abbia non poche implicazioni economiche di difficile soluzione.

Come è facile intuire, è solo attraverso la comparazione con altre realtà socioeconomiche omogenee che queste variabili possono consegnarci un risultato adeguato a esprimere una qualsiasi valutazione. Inoltre, è necessario considerare le poste indicate utilizzando alcune sotto categorizzazioni: pro-capite, a prezzi costanti e/o correnti, in rapporto all’aggregato e via discorrendo.

EStà ha poi indagato nelle proprie ricerche la struttura economica, ovvero il contenuto quali-quantitativo dell’offerta. Di norma utilizziamo il valore aggiunto per addetto, sostanzialmente la produttività, nella consapevolezza che il valore aggiunto è soggetto a molte considerazioni. Infatti, il valore aggiunto, così come la sua dinamica, variazione su un anno base, è legato al posizionamento del settore rispetto alla domanda, al contenuto tecnico e tecnologico dell’output e alla specializzazione produttiva. Di norma tentiamo di catturare questi fenomeni in quanto restituiscono la “resilienza” del settore e del sistema economico nel suo insieme. Il processo potrebbe essere rappresentato come una approssimazione quali-quantitativa che assume ancor più significato se le informazioni considerate vengono comparate. In particolare:

  • Investimenti su valore aggiunto (reddito)
  • Ricerca e Sviluppo su investimenti che in alcuni casi può anche rappresentare la conoscenza incorporata nei beni capitali
  • Incidenza del valore aggiunto aggregato per settore che restituisce il quanto e il come una realtà economica è specializzata

Tale approccio è apparso un punto di partenza utile per catturare la grande sfida tecno-economica sottesa al Green deal e alla digitalizzazione. In effetti, se agli indicatori appena menzionati associamo le emissioni climalteranti (CO2 eq.)  possiamo “valutare” alcune correlazioni (link) tra le emissioni di CO2 con gli investimenti, la Ricerca e Sviluppo, il valore aggiunto e la specializzazione produttiva, ottenendo indicazioni su come un ambito settoriale e/o territoriale si colloca rispetto alla sfida cogente della decarbonizzazione. Più precisamente:

  • CO2 su valore aggiunto
  • CO2 su investimenti
  • CO2 su ricerca e sviluppo
  • CO2 su intensità tecnologica
  • CO2 su reddito da lavoro.

EStà si è anche cimentata in alcune stime circa gli effetti occupazionali e di valore aggiunto di investimenti, ricerca e sviluppo tesi a ridurre l’impatto climalterante della CO2. Una sfida che affonda le sue radici in approcci metodologi diversificati perché riflettono modi differenti di vedere la società, ma utili per costruire le stime, le quali rimangono tali. In effetti, un modello che catturi il potenziale paradigma tecno-economico non esiste, nemmeno nella teoria della complessità veicolata da Mauro Gallegati.

EStà non rappresenta il mondo per quello che è, piuttosto interpreta e suggerisce delle idee rispetto ad alcune variabili testate nel tempo. La materia economica e statistica non sono una scienza neutrale. Chi guarda il mondo ha sempre occhiali e fotografie da utilizzare.

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Global minds

© AQ studio (Adam Quest), 2014

Global minds

5 Gennaio 2017

© AQ studio (Adam Quest), 2014
© AQ studio (Adam Quest), 2014
 
La realtà in cui siamo immersi è complessa e fonde in un tutto indistinto elementi temporali, spaziali, materiali, cromatici, quantitativi, acustici, olfattivi… Per renderla più comprensibile la mente umana la analizza, ossia la separa in categorie più circoscritte. Questo procedimento è alla base di molti concetti che gli esseri umani usano quotidianamente, quali i colori, i numeri, le grandezze etc. Lo stesso procedimento è all’origine delle cosiddette “discipline” con molte delle quali ciascuno tra noi familiarizza a partire dalla scuola e dall’insegnamento separato in ore di “storia” , di “geografia” , di “letteratura”, di “economia” etc. Le categorie sono pertanto indispensabili per rendere la realtà comprensibile alle nostre menti, ma la loro definizione e il loro uso implicano un’analisi critica intorno a tre grosse questioni. La prima è la necessità di riconoscerne il carattere non oggettivo. Le discipline si sforzano di trovare una propria base condivisa (l’epistemologia), ma si tratta di uno sforzo in continuo aggiornamento, non di un risultato. Nella categoria “colori” vi sono popoli che chiamano “bianco” quello che altri popoli suddividono in decine di altre categorie. Nella categoria “tempi verbali” vi sono popoli che usano una o due forme di tempo presente, altri che ne usano decine. La seconda questione, è collegata con la prima. Ogni cultura sviluppa alcune categorie di pensiero e le radica al punto tale che i singoli perdono di vista il carattere di costruzione artificiale e tendono a considerarle naturali. Un esempio tra tutti è la tendenza disgiuntiva del nostro modo di ragionare, tendenza radicatasi nel cosiddetto “Occidente” a partire dagli ultimi tre-quattro secoli. Dalla diffusione del razionalismo cartesiano in poi le menti di chi cresce in questa parte del mondo tendono automaticamente a pensare in modo “separante”. L’aut/aut, ossia il pensare che una cosa o è in un modo o altrimenti deve essere in un altro, è un tratto del nostro modo di ragionare. In realtà molto spesso caratteristiche contraddittorie o addirittura opposte possono convivere nello stesso oggetto (o soggetto), così come insegnano i grandi pensatori orientali: ciascuno tra noi può essere razionale ed emotivo, affettuoso o collerico in funzione della specifica situazione in cui si trova. Il terzo problema è il più grave ed è a sua volta collegato con il precedente. Se la nostra mente per conoscere la realtà ha bisogno di separarla in categorie, la realtà nella sua essenza è un tutto unico e inseparabile. Pertanto, dopo aver affrontato il momento dell’analisi, la nostra mente dovrebbe concludere il processo cognitivo con il momento della sintesi, attraverso il quale ridare alla realtà il suo aspetto effettivo. Ma questo solitamente non avviene. Poche persone vengono educate a pensare sia in modo analitico, sia in modo sintetico, a separare il locale dal globale, le discipline le une dalle altre, le cause dagli effetti, e poi a ricondurre a sintesi il globale, l’interdisciplinare, le retroazioni.   Il rinforzo e la penetrazione capillare del modello analitico (separatore) è stato al contempo effetto e causa del tipo di struttura sociale ed economica che si è diffusa durante i decenni dell’industrializzazione di massa. Negli anni del fordismo e del taylorismo l’organizzazione del lavoro era fortemente compartimentata: la differenza tra tempi di lavoro e tempi di vita era netta, i ruoli lavorativi rigidi e tendenzialmente invariabili, la specializzazione prevaleva sia nelle strutture sociali (la famiglia in primis), sia nelle strutture produttive. La crisi del fordismo ha modificato profondamente l’organizzazione della realtà, e il nostro modo di pensarla ha risentito dell’avvento dei mezzi digitali che permettendo l’accesso immediato a un’infinità di dati e di contatti, suggerisce un modo di pensare non lineare e chiuso, ma ipertestuale, multimediale e aperto. In questo nuovo contesto l’idea di global mind, già promossa da Edgar Morin diversi decenni fa, trova un terreno più fertile. Essere una mente globale oggi non significa solo avere conoscenze in tanti campi disciplinari diversi, significa soprattutto essere in grado di connetterle in una lettura sintetica della realtà, che osservi i fenomeni da tanti punti di vista, ma sia contemporaneamente in grado di restituire in modo organizzato il prisma che ha composto. Il valore di queste letture sintetiche è molto maggiore della somma di tante letture separate; una mente globale agisce sulle inefficienze della separazione disciplinare, traducendo i linguaggi e i sistemi di codificazione specifici delle differenti discipline, in una lettura dove i salti sono appianati e le interconnessioni rese evidenti. Questo permette ad una mente globale di essere molto più efficiente nella progettazione di nuove idee, nuove attività e nella visione di scenari futuri. Sia la progettazione, sia la visione di scenari per loro natura sono attività chiamate a confrontarsi con una quantità di variabili appartenenti a campi diversi; tradurne gli iati in ponti e armonizzare problemi eterogenei verso soluzioni logicamente orientate, è uno dei tipi di lavoro in cui le global minds possono portare maggiore valore aggiunto. La capacità di muoversi in campi differenti aumenta inoltre la capacità di innovare e di rispondere creativamente ai problemi. Il controllo di un maggior numero di attrezzi mentali e l’abitudine a ricombinarli dota infatti le global minds di un ventaglio di possibilità superiore a menti abituate a ragionare in modo strettamente disciplinare. Spesso le riflessioni provenienti dal pensiero ambientalista sono un nutrimento per le global minds. La necessità di affrontare problemi complessi e non scomponibili in laboratorio come quelli posti dall’analisi degli ecosistemi è un’ottima palestra. Non a caso l’ONU ha creato il gruppo multidisciplinare dell’IPCC per studiare il problema dei cambiamenti climatici. Non a caso “innovazione eco-sistemica” può essere la definizione per uno dei campi d’azione privilegiati per una mente globale.