Perché migliorare la raccolta differenziata

15 Gennaio 2021

AUTORI

Emanuele Camisana, Francesca Federici, Massimiliano Lepratti

© Sean Loose, The Baker
© Sean Loose, The Baker
 

 

UNA DIFFERENZIAZIONE DEI RIFIUTI PIÙ EFFICIENTE COMPORTA 1 MILIARDO DI RISPARMI ANNUI PER I CITTADINI E 8 MILIONI DI TONNELLATE DI CO2  EQUIVALENTE IN MENO PER L’AMBIENTE.

I benefici che derivano da un’ottimale gestione dei rifiuti sono innumerevoli. Quanto potrebbero risparmiare cittadini in modo diretto? Quanta CO2 equivalente si eviterebbe di disperdere nell’ambiente?

I margini di miglioramento della gestione e raccolta dei rifiuti solidi urbani (RSU) sono ancora notevoli per il futuro prossimo. ESTà ha effettuato una stima puntuale sulla base dei dati ISPRA e dei coefficienti di Legambiente, calcolando per le tre frazioni di FORSU, carta/cartone e plastica i risultati che si potrebbero ottenere qualora si riuscisse ad intercettare la quasi totalità di ciò che ad oggi finisce ancora nell’indifferenziato (o negli ingombranti misti). 

Il risultato è stato determinato fissando come obiettivo da raggiungere, per la differenziazione delle tre frazioni citate, la composizione merceologica dei rifiuti indicata da ISPRA (sul totale dei RSU il 35,5% di organico, il 22,6% di carta/cartone e il 12,9% di imballaggi in plastica) e calcolando la differenza dei costi di gestione e smaltimento delle diverse frazioni rispetto all’indifferenziato. La frazione indifferenziata infatti determina maggiore inquinamento e maggiori costi a causa delle lavorazioni aggiuntive che il rifiuto deve subire e dello smaltimento in discarica o tramite incenerimento. Le altre frazioni, invece, permettono un minor inquinamento grazie al riciclo e risparmio di materia prima vergine, e minori costi anche grazie ai contributi che le aziende coinvolte nelle filiere di plastica e carta conferiscono al sistema CONAI.

 

Andare ad intercettare la parte delle 3 frazioni indicate che ancora non viene differenziata (3,6 milioni di tonnellate di FORSU, 3,4 di carta/cartone e 2,5 di plastica) determinerà un risparmio effettivo per i cittadini di circa 1 miliardo di euro (994,34 milioni) ed una riduzione delle emissioni di CO2 equivalente per circa 8 milioni di tonnellate (7,97 milioni). La corretta gestione di queste 9,55 milioni di tonnellate aggiuntive di rifiuti urbani consentirà anche un aumento occupazionale e di valore aggiunto.

È necessario sottolineare che il modello di analisi tiene conto della situazione attuale. Gli impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti attualmente in funzione non saranno sufficienti a soddisfare le esigenze del nostro paese: andranno costruiti progressivamente sempre più impianti e ampliati quelli esistenti, che con ogni probabilità utilizzeranno livelli tecnologici superiori. L’economia di scala, invece, consentirà l’abbattimento dei costi unitari di trattamento determinando un ulteriore risparmio. Il miglioramento andrà a ripercuotersi anche sugli impianti di smaltimento. Lo smaltimento in discarica dei RSU avrà un flusso minimo, portando a chiusura delle discariche con progressivi piani di ripristino ambientale dei siti. Anche gli impianti di incenerimento e coincenerimento subiranno una riduzione dei conferimenti.

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

29 Dicembre 2020

AUTORI

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano - EStà

© Terence Eduarte, 2016
© Terence Eduarte, 2016
 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 29.12.2020

  

La finalità di preservare la specie umana dai danni di un innalzamento della temperatura superiore a 1,5° (tra il 1880 e il 2100) sembra mettere d’accordo buona parte della pubblicistica nazionale, così come è indubbia la popolarità delle posizioni etiche di figure carismatiche come papa Francesco. Come sempre il problema più complesso non risiede nel campo dei principi generali, ma in quello delle scelte concrete che consentono o meno la realizzazione di quei principi. E su questo conviene provare a mettere un poco di ordine, superando il livello dell’aneddotica per porsi sul piano strutturale. La ricerca “Il green deal conviene” coordinata dall’Italian Climate Network e realizzata dall’associazione Està prova a porre quest’ordine, partendo dall’analisi degli obiettivi europei e nazionali. 

L’UE ha finalmente riconosciuto la necessità di ridurre del 55% tra il 1990 e il 2030 le emissioni dei gas ad effetto climalterante, un esito non scontato fino a poco tempo addietro e, sebbene inferiore a quanto richiesto dal Parlamento europeo (60%), estremamente sfidante per le scelte da compiere nel prossimo decennio. In Italia il piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) prodotto a livello interministeriale a fine 2019, ancor prima di poter essere attuato, risulta inadeguato in quanto costruito su un’ipotesi di riduzione dei gas climalteranti pari a meno del 40%.

La prima scelta concreta da compiere è quindi un adattamento degli obiettivi: l’Italia deve ridurre le sue emissioni di un 15% in più rispetto a quanto si riteneva l’anno scorso, ma questo 15% aggiuntivo si concentra tutto nei dieci anni tra il 2020 e il 2030. Per ottenere l’obiettivo le scelte principali possono concentrarsi sui soli aspetti ambientali, oppure possono combinare virtuosamente aspetti ambientali e aspetti socioeconomici, integrando diminuzione dei gas a effetto climalterante, aumento del valore aggiunto prodotto e aumento dell’occupazione. Questa seconda strada è ovviamente di gran lunga preferibile e su di essa si concentra la ricerca.

Il primo passaggio necessario è il riconoscimento dell’attuale struttura produttiva italiana e della sua dinamica recente. Il sistema produttivo nazionale ha conosciuto negli anni della crisi post 2008 un’involontaria svolta green a forte impatto sociale, dovuta alla chiusura di un alto numero di aziende manifatturiere altamente inquinanti e poco competitive. Nel periodo più vicino (2014-2019) il sistema nel suo complesso sembra aver iniziato una dinamica di disaccoppiamento: le emissioni diminuiscono (seppur di poco) a fronte di un (leggero) aumento di valore aggiunto e occupazione, dimostrando empiricamente come sia possibile diminuire l’impatto sul cambiamento climatico, aumentando allo stesso tempo PIL e occupazione.

Ma come rinforzare questa dinamica assolutamente troppo debole? I risultati di diverse ricerche convergono nel segnalare alcune priorità: il settore dei trasporti italiano risulta aver addirittura aumentato la sua quota di emissioni climalteranti dal 1990 al 2018 e il complesso degli edifici, in grandissima parte privati, ha avuto un eguale comportamento negativo, aggravato da una scarsa efficienza energetica. Entrambi questi settori assommano ciascuno circa un quarto delle attuali quote di produzione di CO2 equivalente; aggiungendo il settore della produzione e distribuzione dell’energia si arriva al 70% delle emissioni italiane.

A queste priorità è importante corrispondere azioni conseguenti e focalizzate sulle politiche industriali che, oltre a prospettare le migliori prestazioni in termini di riduzione delle emissioni, offrano le migliori opportunità in termini di crescita della ricchezza e dell’occupazione.

I sistemi di produzione e di consumo energetico basate sull’energia solare e combinati con una varietà di sistemi di accumulo sono senz’altro una risposta efficace sul piano climatico, ma perché diventino una risorsa per l’intero sistema economico ed occupazionale, non basta installarli. Occorre indirizzare il sistema produttivo del paese, a cominciare dai suoi enti di ricerca e dai suoi grandi attori a partecipazione pubblica, affinché l’Italia sia anche in grado di produrre e vendere gli strumenti tecnologicamente più avanzati per lo sfruttamento dell’intero ciclo del solare, evitando di arricchire solo i produttori di paesi esteri. Discorsi analoghi riguardano i sistemi di trasporto, i sistemi di costruzione e ristrutturazione delle abitazioni, nonché di produzione degli strumenti per lo sfruttamento e l’accumulo dell’energia eolica. Ognuno di questi interventi è l’occasione per creare una filiera nazionale tecnologicamente avanzata, ma le condizioni per farlo sono ciò che una politica industriale seria richiede: concentrarsi su poche grandi priorità ed evitare interventi a pioggia su prospettive di breve respiro (ad esempio quelle legate all’energia fossile altamente inquinante come il gas, necessariamente destinato all’abbandono in tempi non lunghi).

Una politica industriale, per il clima, per la ricchezza e per l’occupazione. L’occasione è ghiotta, la sfida non rinviabile.

 

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano

 

© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

VIDEO: Perchè il Green Deal conviene all’Italia

È possibile produrre più ricchezza, avere più occupazione e ridurre le emissioni di gas climalteranti? EStà, coordinata da Italian Climate Network, ha studiato come rispondere positivamente a queste domande e come l’Italia del 2030, grazie al Green Deal, possa andare verso la neutralità climatica con più ricchezza e più occupati.

L’analisi della realtà produttiva dal 1990 ad oggi ci illustra i cinque problemi che rallentano il raggiungimento degli obiettivi in Italia.

  1. Gli edifici vetusti, non ristrutturati, e di conseguenza ad alto consumo di energia fossile.
  2. I trasporti con moltissime vetture private di cui solo pochissime elettriche.
  3. Il suolo povero di carbonio e con basse capacità di assorbimento.
  4. Le foreste italiane mal gestite e il cui legname poco e mal utilizzato.
  5. Le industrie, e in particolare quelle che investono meno nelle innovazioni, come i trasporti e la produzione di energia.

Come richiesto dal Green Deal, per superare questi problemi entro il 2030 l’Italia dovrà aumentare del 78% gli investimenti previsti dal PNIEC (Piano Nazionale energia e Clima, approvato nel 2019) nei principali settori strategici. Nei trasporti incrementando il numero di veicoli elettrici; nelle energie rinnovabili, per esempio installando un gran numero di pannelli fotovoltaici; e nel settore edilizio con ampi investimenti nelle ristrutturazioni.

Questi sforzi porterebbero ad un incremento del PIL dell’8% e oltre 600.000 occupati stabili in più da qui al 2030.

Ma quali numeri potremmo ottenere se gli investimenti fossero più innovativi?

Se ad esempio attraverso l’agricoltura conservativa aumentassimo la capacità di assorbimento del carbonio nei terreni e con una migliore gestione delle foreste e un migliore utilizzo del legname riducessimo le emissioni di anidride carbonica in dieci anni il PIL salirebbe di un ulteriore 4,1%, conteremmo oltre 400.000 occupati in più e oltre centinaia di milioni di tonnellate di CO2 in meno.

Ma non è finita qui: ai benefici economici e sociali si aggiungerebbero quelli ambientali ed ecologici, la riduzione dell’inquinamento dell’aria e un miglioramento dello stato di salute di suoli e foreste.

IL GREEN DEAL CONVIENE

È possibile produrre più ricchezza, avere più occupazione e ridurre le emissioni di gas climalteranti? È possibile spostare la produzione e gli occupati da ambiti che “lavorano male” sul piano ambientale, ad ambiti che producono livelli molto bassi di CO2 equivalente? Ed è possibile farlo ottenendo allo stesso tempo un aumento del valore aggiunto e un aumento degli occupati?
Questo studio, coordinato da Italian Climate Network, e realizzato dall’associazione EStà (Economia e sostenibilità), ha preso in esame le condizioni affinché questi obiettivi vengano raggiunti congiuntamente e l’Italia nel 2030 possa avere più ricchezza e più occupati grazie al Green Deal.

L’analisi della realtà produttiva tra il 1990 e oggi ci dice che i problemi nazionali sono rappresentati dai settori industriali in cui si investe poco in innovazione tecnologica (trasporto- magazzinaggio, energia), da una scarsa capacità di evoluzione del sistema del trasporto privato e dalle scarse prestazioni energetiche degli edifici..

Per raggiungere gli obiettivi climatici al 2050 l’Italia deve quasi raddoppiare gli investimenti e aumentare di molto gli sforzi pubblici, a partire dai prossimi dieci anni. Gli investimenti del periodo 2021 – 2030 nei settori strategici devono salire dai 1000 miliardi previsti dal PNIEC (Piano Nazionale energia e Clima, approvato nel 2019) alla cifra di 1780 miliardi. Entro il 2030 i trasporti necessitano di un tasso di elettrificazione dei veicoli su strada pari almeno al 30%; l’energia rinnovabile di un’installazione di pannelli fotovoltaici su circa il 4% del parco residenziale esistente; gli edifici di un investimento annuale per i settori residenziale e commerciale-pubblico pari a 21 miliardi.

Questi sforzi si tradurrebbero da qui al 2030 in una maggiore crescita del PIL pari all’8% circa ed in un aumento di 600.000 unità lavorative, stabili nel decennio,

Numeri che migliorerebbero ulteriormente nel caso in cui l’Italia mirasse i suoi investimenti verso gli ambiti green a maggior contenuto tecnologico. Attraverso l’indagine statistico-econometrica, si è calcolato infatti che 7 miliardi annui di investimenti aggiuntivi in tecnologia green avanzata, rispetto agli stessi 7 miliardi investiti in tecnologia a basso contenuto innovativo, porterebbero a una crescita continua di ore lavorate e PIL, fino ad avere nel 2030 circa 400.000 occupati e circa 70 miliardi annui di PIL (il 4,1%) ulteriori.
Numeri che sottolineano la necessità di aumentare la spesa in Ricerca e sviluppo e gli sforzi di industrializzazione dei brevetti, per far sì che il nostro paese non resti nelle retrovie dell’innovazione, limitandosi ad acquistare la tecnologia green prodotta da altri.

Questi sforzi negli ambiti industriali andrebbero accompagnati da un aumento rilevante della capacità di assorbimento del carbonio sia nei terreni agricoli, attraverso le tecniche di agricoltura conservativa, sia nelle foreste, per mezzo di una loro migliore gestione e di un miglior utilizzo del legname; queste azioni avrebbero il duplice vantaggio di ridurre le emissioni e incrementare gli assorbimenti naturali svolgendo un ruolo strategico per raggiungere la piena neutralità climatica entro il 2050.

Gli sforzi economici avrebbero non solo ricadute positive in termini di PIL e occupazione: i benefici nascosti (ambientali e sociali) sono numerosi: la riduzione dell’inquinamento dell’aria e una positiva ricaduta sul sistema sanitario nonché l’incremento dello stato di salute di suoli e foreste.

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Industria e finanza alla sfida climatica

Industria e finanza alla sfida climatica

6 Dicembre 2019

Convegno "Industria e finanza alla sfida climatica". Massimiliano Lepratti, Andrea Calori, Riccardo Sanna, Alessandro Pagano, Elena Lattuada
 

Perché la Spagna ha un consumo di suolo ridotto? La manifattura condiziona gli impatti ecologi dell’agricoltura? Quanto tempo passa in Italia perché un invenzione diventi innovazione? Quanti ricercatori lavorano in Germania per le due maggiori organizzazioni di ricerca? Che rapporto c’è tra brevetti ambientali e contenuto di CO2 della produzione di un paese? Qual è il paese europeo che ha maggiormente ridotto i suoi impatti in termini di emissioni?

Le domande degli working paper presentati da EStà il 29 novembre hanno prodotto non solo risposte, ma anche una serie di nuove domande di cui nelle righe precedenti si trova un assaggio.

Capire quali settori economici emettono più CO2 per unità di euro, perché questo avviene, cosa può fare la finanza per favorire la decarbonizzazione e cosa deve fare l’ente pubblico perché l’Italia rispetti gli obiettivi di Parigi sono tutti punti di un’agenda di ricerca che durante il convegno EStà ha posto, e che ha mostrato tutte le sue potenzialità maieutiche.

Convegno “Industria e finanza alla sfida climatica”. Andrea Calori, Emanuele Camisana e Paolo Maranzano

Chi c’era ne è uscito con due punti fermi:

  1. 1. la collaborazione di economisti capaci di approcci non mainstream con i mondi produttivi, finanziari e ambientali è necessaria per indirizzare le ricerche sulla transizione ecologica verso le domande giuste; e
  2. 2. senza le risposte alle domande giuste è impossibile pensare a una transizione efficace.

Da gennaio EStà continuerà il lavoro, per capire in quali campi è prioritario proseguire le indagini, con quali domande aggiornate e con chi.

Venerdì 29 Novembre 2019 – Sala Rodolfi – Università Bicocca, Milano.

#SDGs @unimib

Le sfide nascoste della Green economy

Le sfide nascoste della Green economy

11 Novembre 2019

 

Sebbene l’obiettivo della riduzione del riscaldamento climatico di 2 gradi sia al centro dell’agenda mondiale, non è emerso un modello d’analisi capace di combinare difesa dell’ambiente e paradigma tecno-economico Green, con tutte le implicazioni tecnologiche sottese; i paradigmi tecno-economici si affermano quando si esaurisce un modello di riferimento e la tecnologia emergente permette di soddisfare la nuova domanda. Paradigma green sottende una combinazione tra offerta e domanda di beni e servizi che incorporano maggiore conoscenza, unitamente ad una intensità energetica e inquinante (CO2) più contenuta. L’associazione Està ha indagato il dare e l’avere della Green Economy e delineato i c.d. beni capitali, intermedi e di consumo (dal lato della domanda e dell’offerta) connessi al nuovo paradigma. I risultati sono inediti e smentiscono il modus operandi delle politiche ambientali piegate sui soli costi, mostrando un ritratto più completo della Green economy e svelando le insidie che una sua interpretazione semplificata nasconde per l’industria, la finanza e la politica. 

Il centro studi non profit EStà, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, ha predisposto 4 working paper (capitale, finanza, struttura e matrice) tesi a delineare le policy che meglio di altre possono implementare il progetto ambizioso di un green new deal. 

A Milano, il 29 novembre dalle 14.00 alle 18.30 presso l’Università Bicocca – Sala Rodolfi – per iscrizioni: barbara.terrone@assesta.it – in occasione del Convegno “Aumentare la ricchezza, diminuire la CO2. Industria e finanza alla sfida climatica” discuteremo proprio dei vincoli di struttura con il mondo accademico e le parti sociali.

1) L’impatto degli effetti climalteranti sul PIL è per lo più misurato in termini di costi, trascurando il capitale ; in realtà i costi di qualcuno sono anche un reddito per altri: la messa in sicurezza di un’area, il risanamento di un territorio, il disinquinamento delle falde acquifere e/o la ricerca di falde più profonde, sono effetti del cambiamento climatico che potrebbero diventare reddito in presenza di una politica economica all’altezza. La disputa sui costi fa ombra a qualcosa di più profondo, ossia la quantità di capitale nazionale che rischia seriamente di essere compromesso perché distrutto o reso inutilizzabile dagli effetti climalteranti. Più precisamente, considerate le previsioni sulle inondazioni, ci sono ampie porzioni di territorio che rischiano di essere private di capitale tout court e di valore aggiunto.

2) La finanza non può essere trascurata. Con quali lenti la politica monetaria guarda al cambiamento climatico? Nei più importanti documenti istituzionali, compresi quelli della Banca d’Italia, il tema è connesso ai parametri ESG (criteri ambientali, sociali e di governo), che permetterebbero la predisposizione di bond collegati agli obiettivi climatici. Purtroppo, le dinamiche finanziarie, anche quando inserite nella cornice dei parametri ESG, con difficoltà considerano i alcuni rischi rilevanti; per esempio il rischio di erogare più credito-capitale nelle zone a minor vulnerabilità climatica – dove ci sarebbe meno necessità di credito-capitale da investire – rispetto ad aree ad alta vulnerabilità; o ancora il rischio speculativo, cioè la creazione di bolle in un nuovo macro settore ritenuto ad alto potenziale di redditività. In tutti i casi resterebbe eluso il nodo strategico principale: uno degli ostacoli allo sviluppo del mercato delle obbligazioni verdi è la mancanza di progetti green, così come di misure politiche volte a rafforzare gli investimenti dell’economia reale in beni e infrastrutture verdi, essenziali per raggiungere gli obiettivi posti dagli accordi climatici di Parigi 2015.

3) Sarebbe il caso di indagare la relazione tra andamento di CO2, PIL e struttura produttiva. Nonostante vi sia accordo pressoché unanime sull’obiettivo di ridurre la CO2 per contenere gli effetti climalteranti, questo orizzonte è stato storicamente interpretato da taluni come un vincolo alla crescita e/o come vincolo all’uso delle risorse naturali. Da diverse parti, inoltre, si è manifestata l’intenzione di introdurre tasse di scopo per implementare il principio di chi “inquina paga”. Sarebbe molto più opportuna la rilevazione di una base imponibile coerente slegata dal consumo, introducendo un criterio di progressività connessa alla CO2. La sfida più importante si colloca in ogni caso nella relazione tra emissione di CO2 e struttura produttiva (modello di sviluppo). Osservando alcuni indicatori di sistema dei principali paesi europei (brevetti, R&S, investimenti verdi, PIL), si osserva che non tutti i paesi registrano gli stessi andamenti (E. Camisana). Le differenze sono legate alla struttura produttiva: tanto più questa è orientata alla Green Economy, tanto più mostra maggiori tassi di crescita e viceversa. La Green economy poggia sull’industrializzazione della ricerca e sulla politica pubblica; la distanza tra i paesi fotografa il loro posizionamento tecno-economico e la relativa possibilità di diventare protagonisti del cambiamento. Questo tema emerge con nettezza se misuriamo le relazioni determinate dalla produzione e dalla circolazione dei beni tra i vari settori in cui si articola un sistema economico, secondo l’approccio definito dall’economista russo Wassily Leontief. Ad un primo livello di indagine, emerge come il settore della manifattura industriale, rispetto ad altri maggiormente considerati dalla narrazione mainstream (trasporti, agricoltura) sia quello che meglio di altri reagisce in termini di de-carbonizzazione rispetto agli stimoli coordinati di Ricerca e sviluppo e brevettazione, oltre ad essere il settore strategico della Green economy in quanto cede i beni utilizzati dai settori, agricolo, dei trasporti, della climatizzazione etc.

Anche solo considerando queste prime indagini, emergono spunti sufficienti per stimolare disegni di politiche economiche adatte alle sfide dei prossimi anni, e per definire contemporaneamente una Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile per il settore della manifattura industriale. 

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

11 Luglio 2019

 

Le analisi che spiegano il ritardo economico italiano e lombardo con il costo del lavoro, la rigidità del mercato, l’invadenza dell’economia pubblica e, peggio ancora, con la mancanza di tutela dei prodotti made in Italy (Lombardy), appaiono di breve respiro e insoddisfacenti. I problemi di struttura della manifattura nazionale e lombarda hanno infatti radici lontane e persistenti che datano almeno all’inizio degli anni ‘90. Per inquadrare e interpretare correttamente la complessità occorre quindi partire dalle domande giuste.

Il report è costruito su due parti distinte ma comunicanti. Dopo la presentazione del modello macroeconomico interpretativo, la prima parte del lavoro si domanda innanzitutto quale sia il ruolo esercitato dall’Europa nel sistema economico, per le politiche europee recenti in campo industriale e per la ricerca e sviluppo, a questo si affianca uno studio sui brevetti, evidenziando la coerenza tra i due campi e il posizionamento dell’Italia e della Lombardia nel secondo.

La seconda parte del lavoro delinea il posizionamento della manifattura di Italia e Lombardia nel consesso europeo, comparando in particolare la produzione dei beni capitali e l’intensità tecnologica degli investimenti, collegando queste evidenze con il problema del vincolo tecnologico estero. La seconda parte continua con l’analisi della manifattura lombarda per provincia, e della polarizzazione centro-periferia. Le ultime pagine (conclusioni) delineano le questioni su cui sarebbe il caso che la politica, gli imprenditori e il sindacato inizino a lavorare.

Il metodo sotteso all’indagine è quello comparativo: tutte le statistiche vengono confrontate tra paesi e regioni; diversamente sarebbe impossibile rispondere alla domanda generale alla base di questa sezione, ossia se la Lombardia sia una regione strutturalmente europea, oppure una regione ai margini dello sviluppo continentale.

↓ Scarica la ricerca La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

25 Giugno 2019

 

Milano 27 giugno 2019 h. 10

Auditorium Levi dell’Università Statale

Via Valvassori  Peroni 21

Discussione della ricerca

“La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda”.

La Fiom CGIL Lombardia, con la collaborazione scientifica dell’associazione Economia e Sostenibilità (EStà), ha svolto una ricerca sull’industria lombarda. L’analisi è stata condotta attraverso due distinte prospettive, una di taglio macroeconomico e una di taglio microeconomico. La prima ha analizzato i dati relativi alla produzione metalmeccanica regionale, ponendoli in relazione con le politiche di ricerca dell’Unione europea e con i risultati di altre regioni e stati continentali. La seconda ha analizzato per l’intero periodo 2008 – 2017 i dati di bilancio delle aziende metalmeccaniche lombarde, ponendo in relazione valore aggiunto, costo del lavoro, occupazione, investimenti immateriali.

 

Programma

h. 9.45 Saluti dal rettore dell’Università statale

h. 10 Introduzione di Alessandro Pagano – FIOM CGIL Lombardia e Andrea Di Stefano – EStà.

h 10.15 Prima sessione: “Crescita, specializzazione manifatturiera e paradigma tecnologico: il caso italiano e lombardo a confronto con l’Europa”

·       Presentazione di Roberto Romano – CGIL Lombardia – EStà

·       Discussione con, Silvia Spera – Segreteria CGIL Lombardia; Gianni Pietro Girotto – Presidente Commissione Industria, Commercio, Turismo del Senato*; Mario Noera – Università Bocconi.

 

h. 11.15 Seconda sessione: “Valore aggiunto, redditività e lavoro nelle imprese metalmeccaniche lombarde”

·       Presentazione di Alessandro Santoro – Università Bicocca.

·       Discussione con Attilio Fontana – Presidente Regione Lombardia*, Elena Lattuada – Segretario Generale CGIL Lombardia; Livio Romano – Centro Studi Confindustria; Anna Maria Variato – Università di Bergamo.

h. 12.15 Conclusioni di Francesca Re David – Fiom CGIL.

Modera Massimiliano Lepratti – EStà

* In attesa di conferma

Indagine sull’economia libraria italiana

Indagine sull’economia libraria italiana

8 Novembre 2017

 
Che cos’è? Non è mai stato fatto nulla del genere su scala nazionale: un’indagine per capire come lavorano i librai, come si organizzano, come comprano e vendono, come promuovono le loro proposte. Da dove nasce? E’ un progetto che trae origine dalla volontà di parte del mondo editoriale e del mondo dei librai di lavorare insieme, sapendo che il benessere di ogni elemento dell’ecosistema è alla base di un maggior benessere dell’ecosistema complessivo. Quali sono gli obiettivi? ALI, SIL, Letteratura rinnovabile, supportate dall’associazione EStà, provano a capire con i diretti interessati qual è lo stato dell’arte del loro lavoro e quali margini di miglioramento esistono. Margini relativi alle singole librerie: il questionario d’indagine produrrà un indice di efficienza e potrà dare privatamente ad ognuno tra i partecipanti che lo desideri la sua posizione rispetto ai parametri dell’indice. Margini collettivi: gli esiti complessivi del questionario saranno la base per riflessioni e proposte che l’insieme dei librai potrà esprimere nei momenti di presentazione pubblica dei risultati. Qual è lo strumento prodotto? Le risposte al questionario contribuiranno alla definizione di un indice di efficienza delle librerie composto grazie a un insieme di parametri: la capacità di promuovere le iniziative in modo sistemico, il mix di strategie di acquisto e di vendita scelte, l’importanza riconosciuta alla formazione del personale e alla conoscenza del panorama editoriale, la capacità di ottimizzare la gestione del tempo e dei mezzi tecnici. Quanto tempo occorre per la compilazione e come si procede? La compilazione avviene on line e richiede circa 15-20’ per ognuna delle quattro sezioni previste:
  1. (a) profilo della libreria;
  2. (b) strategie di acquisto e di vendita;
  3. (c) strategie di promozione;
  4. (d) gestione del personale e attenzione allo sviluppo.
Può essere utile dare un’occhiata preventiva a ciascuna tra esse e prepararsi per quei dati che non necessariamente ogni libraio ha sottomano. Per diluire il lavoro le diverse sezioni possono essere compilate ciascuna in un momento diverso, ma attenzione una volta iniziato l’inserimento dei dati occorre che la singola sezione sia completata, altrimenti i dati inseriti non verranno salvati.     Per accedere alle sezioni: scrivi un’email a librai@assesta.it e ti verranno inviati i link.

La circolarità sistemica

© Inus Pretorius, The Idea Factory

3 Gennaio 2017

DI

Massimiliano Lepratti

© Inus Pretorius, The Idea Factory
© Inus Pretorius, The Idea Factory

La circolarità sistemica

L’applicazione di principi fisici ed ecologici alle discipline socio-economiche ha permesso di affinare  gli strumenti per misurare i rischi che la specie umana corre nel perseguire gli attuali metodi di produzione, trasporto e consumo. Lo Stockholm resilience center ha costruito un cruscotto per misurarli: si tratta di 9 indicatori, per ciascuno dei quali un colore semaforico indica il livello di pericolo a cui l’umanità è arrivata (il rosso indica un danno irreversibile dalle conseguenze non valutabili). Tra le molte considerazioni che il cruscotto evoca è utile ricordare che il cambiamento climatico è solo una delle variabili in gioco e che il livello di pericolo di sopravvivenza è riferito all’umanità e non al pianeta nel suo complesso (quest’ultimo è abituato a vedere scomparire specie).

In risposta a questi problemi all’inizio del decennio attuale il sistema economico ha iniziato a dare applicazione a un principio fisico estremamente razionale: poiché il nostro pianeta vive ricevendo dall’universo quantità enormi di energia (solare) e quantità pressoché nulle di materia, è molto più sensato produrre energia grazie all’infinità del sole che bruciando materia fossile limitata. Il costo calante delle tecnologie sta rendendo possibile il passaggio.
Se nel campo dell’energia le rinnovabili sono una risposta per coniugare riduzione dei danni ecologici e innovazione economica, nel campo della materia è la cosiddetta economia circolare lo strumento per produrre gli stessi impatti. La progettazione di oggetti e apparecchi destinati a non divenire rifiuti, l’utilizzo degli scarti come materia prima per nuovi cicli, la riduzione della quantità di materia per unità di ricchezza prodotta (PIL) sono tutte pratiche che contribuiscono ad evitare che la materia disponibile si trasformi in scarti ambientalmente inquinanti ed economicamente inutilizzabili.
Le capacità industriali per produrre energia e materia con processi e risultati attenti all’ecologia planetaria crescono e si diffondono rapidamente: l’edilizia adotta nuove tecniche, l’illuminazione a LED prende piede, le auto elettriche cominciano a diffondersi, la biochimica entra nella vita quotidiana con i sacchetti in mater-bi; ma in sé la somma di tanti singoli attori non garantisce che la rappresentazione raggiunga l’impatto voluto. Almeno due fattori ulteriori arricchiscono un’analisi delle tendenze produttive attuali che non voglia fermarsi agli epifenomeni. Il primo è l’effetto rimbalzo: se la quantità di impatto ecologico per unità prodotta diminuisce, ma al contempo aumenta più che proporzionalmente il numero di unità consumate, l’effetto è vanificato. Dobbiamo infatti considerare che la popolazione mondiale è destinata ad aumentare drasticamente, superando i nove miliardi nel 2050, e che ciò sarà accompagnato da un aumento della competizione per il controllo delle risorse. Il secondo fattore, più complesso, attiene agli impatti sociali. Un miglioramento del quadro ecologico non necessariamente si traduce in un miglioramento di problemi quali la disoccupazione, gli squilibri di reddito, il diseguale accesso alle risorse. Inoltre, perché le soluzioni proposte dall’economia circolare siano efficaci, oltre che efficienti, è necessario che siano accessibili e inclusive, cioè che non si traducano in soluzioni di nicchia per un mercato omogeneo e ristretto. Il problema degli scarti e delle eccedenze inutilizzate non riguarda infatti solo la materia, ma è intrinseco a tutto il sistema socio economico e ambientale.

Nella rappresentazione ideale contenuta nell’immagine qui sopra, e proposta dall’Economia Verde di Molly Scott Cato, l’economia è un subsistema – chiuso e limitato – dell’ecosistema di cui è parte integrante. Nella realtà attuale i meccanismi sono molto diversi, l’economia si percepisce come dimensione dominante e autonoma, producendo rifiuti che riversa nell’ambiente sotto forma di inquinamento (le cosiddette “esternalità”), e “scarti” che riversa nella società sotto forma di disoccupati.
Un’economia diversa potrebbe invece ispirarsi al principio ecologico della circolarità (tale per cui ogni scarto o eccedenza diviene risorsa per qualcun altro) intendendo quest’ultimo in modo sistemico, ossia come principio a cui è utile ispirare tutti i principali meccanismi legati alla produzione:

• l’economia “reale” (programmando la riduzione della produzione di scarti e riutilizzando scarti ed eccedenze come nuove materie di input);
• la finanza (minimizzando i meccanismi che creano “eccedenze” finanziarie improduttive e destinate a speculazioni, e massimizzando la circolazione della moneta a sostegno della produzione di beni e servizi ambientalmente e socialmente utili);
• i meccanismi distributivi e il mercato del lavoro (favorendo la circolazione e la migliore allocazione di ogni forma di potenziale “eccedenza”: disoccupati disponibili a impiegare la propria capacità lavorativa, risorse inutili per alcuni e utili per altri, grandi quote di ricchezza da ridistribuire socialmente…).

Un passaggio verso la circolarità sistemica non può tuttavia prodursi grazie ai soli meccanismi di mercato. Nel mercato for profit dei beni e servizi, della finanza, del lavoro ogni impresa tende ad agire per aumentare i propri vantaggi di breve e di lungo termine, e se alcune tra queste azioni possono coincidere con il benessere del sistema complessivo (come nel caso dell’adozione di tecniche produttive più ecologiche), altre non vanno nella stessa direzione (ad esempio son pochissime le imprese che riducono spontaneamente l’orario di lavoro).
Un grande cambiamento di sistema non può quindi essere prodotto senza il concorso di chi per natura svolge una funzione sistemica: gli enti pubblici e il terzo settore, accanto al mercato. Da un lato, i grandi enti pubblici (Stati nazionali, Unione europea…) possiedono la vastità di mezzi, la possibilità di investimenti a lungo termine e il potere di indirizzo dell’economia (verso la ridistribuzione di ricchezza e lavoro e verso il benessere collettivo) necessari per favorire un’innovazione di paradigma. Dall’altra, il terzo settore (imprese sociali e cooperative, associazioni di volontariato e della società civile) può garantire l’apertura dell’economia circolare alla diversità e all’inclusione sociale e, allo stesso tempo, un suo orientamento verso forme di mercato civile – in cui etica, ecologia ed economia vengono riavvicinate in modo sistemico.