I numeri e la società

19 Maggio 2021

© Loulou and Tummie, 2015
© Loulou and Tummie, 2015
 

I numeri e la società

I fenomeni economici e sociali non possono e non sono ravvisabili nei numeri. La statistica descrittiva aiuta a studiare i fenomeni quantitativi e qualitativi della collettività, sebbene le condizioni di incertezza, cioè di incompleta conoscenza di essa o di una sua parte, assegnano alla logica e all’intelligenza un ruolo ancor più stringente. La semplice rilevazione di un numero, per esempio l’inflazione, non permette di catturare il fenomeno dell’inflazione. Occorre accoppiare sempre un’altra rilevazione per catturare e interpretare la crescita dei prezzi: possono crescere i profitti, il costo delle materie prime, oppure gli investimenti non hanno dato i risultati attesi. Possiamo anche sostenere che la crescita della massa monetaria ha permesso la crescita dei prezzi dei titoli quotati in borsa; è una crescita del valore dei titoli trattati o una crescita dei prezzi dei titoli trattati?

La dissertazione è un avvertimento ai naviganti circa le misure e gli indicatori. Sono sempre utili e funzionali all’interpretazione dei fenomeni, ma è solo grazie al metodo e all’intelligenza che i numeri possono raccontarci qualcosa di interessante, che rimane pur sempre parziale e verificabile (Popper e la discutibilità della tesi).

L’esperienza e il lavoro aiutano. Passo dopo passo permette di affinare le informazioni statistiche, di testarle e verificare la loro attendibilità (parziale) rispetto ai fenomeni economici e sociali.

EStà ha maturato alcune convinzioni rispetto ai numeri che più e meglio di altri aiutano la comprensione della società.  Sono un supporto prezioso per catturare il ben-essere della collettività ravvisabile nei cambiamenti climatici, occupazionali e di reddito disponibile. Rispetto al reddito disponibile utilizziamo sia la contabilità dei fattori, sia quella della domanda. Si tratta di due facce della stessa medaglia, ma con un significato economico abbastanza diverso. Il primo tende a misurare il Reddito dal lato del consumo, degli investimenti e della spesa pubblica; il secondo osserva la sua distribuzione, ovvero la ripartizione tra salari, profitto e rendita. Inoltre, EStà cerca sempre di comparare le informazioni statistiche con quelle di altre realtà socioeconomiche che meglio di altre possono essere associate al Paese o alla Regione Lombardia. Diversamente i “numeri” raccolti hanno una capacità esplicativa manifestamente contenuta. La comparazione è un tratto caratteristico del nostro lavoro.

Alcune ipotesi di ricerca sviluppate nel tempo e con un certo grado di raffinatezza, pur nei limiti sopra ricordati, suggeriscono che 1) alcune variabili sono più rappresentative di altre e 2) la combinazione tra due variabili permette di catturare (in parte) alcuni tratti dei fenomeni indagati. Solo per offrire una prima rappresentazione immaginiamo di voler catturare l’innovazione tecnologica e/o il contenuto tecnico degli investimenti. La prima potrebbe essere legata all’innovazione incorporata negli investimenti (investimenti su valore aggiunto), la seconda nell’intensità tecnologica (ricerca e sviluppo su investimenti). Naturalmente il fenomeno è più complesso, ma nel tempo ha mostrato una certa solidità, anche accademica, attraverso un certo numero di pubblicazioni.

Alcuni indicatori sono consolidati nella pubblicistica e difficilmente è possibile rinunciarvi:

  • Consumi
  • Investimenti
  • Spesa pubblica

A questi possiamo associare:

  • Reddito da lavoro;
  • Reddito da profitto;
  • Reddito da rendita, ancorché quest’ultima abbia non poche implicazioni economiche di difficile soluzione.

Come è facile intuire, è solo attraverso la comparazione con altre realtà socioeconomiche omogenee che queste variabili possono consegnarci un risultato adeguato a esprimere una qualsiasi valutazione. Inoltre, è necessario considerare le poste indicate utilizzando alcune sotto categorizzazioni: pro-capite, a prezzi costanti e/o correnti, in rapporto all’aggregato e via discorrendo.

EStà ha poi indagato nelle proprie ricerche la struttura economica, ovvero il contenuto quali-quantitativo dell’offerta. Di norma utilizziamo il valore aggiunto per addetto, sostanzialmente la produttività, nella consapevolezza che il valore aggiunto è soggetto a molte considerazioni. Infatti, il valore aggiunto, così come la sua dinamica, variazione su un anno base, è legato al posizionamento del settore rispetto alla domanda, al contenuto tecnico e tecnologico dell’output e alla specializzazione produttiva. Di norma tentiamo di catturare questi fenomeni in quanto restituiscono la “resilienza” del settore e del sistema economico nel suo insieme. Il processo potrebbe essere rappresentato come una approssimazione quali-quantitativa che assume ancor più significato se le informazioni considerate vengono comparate. In particolare:

  • Investimenti su valore aggiunto (reddito)
  • Ricerca e Sviluppo su investimenti che in alcuni casi può anche rappresentare la conoscenza incorporata nei beni capitali
  • Incidenza del valore aggiunto aggregato per settore che restituisce il quanto e il come una realtà economica è specializzata

Tale approccio è apparso un punto di partenza utile per catturare la grande sfida tecno-economica sottesa al Green deal e alla digitalizzazione. In effetti, se agli indicatori appena menzionati associamo le emissioni climalteranti (CO2 eq.)  possiamo “valutare” alcune correlazioni (link) tra le emissioni di CO2 con gli investimenti, la Ricerca e Sviluppo, il valore aggiunto e la specializzazione produttiva, ottenendo indicazioni su come un ambito settoriale e/o territoriale si colloca rispetto alla sfida cogente della decarbonizzazione. Più precisamente:

  • CO2 su valore aggiunto
  • CO2 su investimenti
  • CO2 su ricerca e sviluppo
  • CO2 su intensità tecnologica
  • CO2 su reddito da lavoro.

EStà si è anche cimentata in alcune stime circa gli effetti occupazionali e di valore aggiunto di investimenti, ricerca e sviluppo tesi a ridurre l’impatto climalterante della CO2. Una sfida che affonda le sue radici in approcci metodologi diversificati perché riflettono modi differenti di vedere la società, ma utili per costruire le stime, le quali rimangono tali. In effetti, un modello che catturi il potenziale paradigma tecno-economico non esiste, nemmeno nella teoria della complessità veicolata da Mauro Gallegati.

EStà non rappresenta il mondo per quello che è, piuttosto interpreta e suggerisce delle idee rispetto ad alcune variabili testate nel tempo. La materia economica e statistica non sono una scienza neutrale. Chi guarda il mondo ha sempre occhiali e fotografie da utilizzare.

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Webinar con attivisti per il clima

L’inedita sfida economico-sociale e ambientale che stiamo fronteggiando ci impone di trovare soluzioni trasformative che permettano di produrre ricchezza e occupazione di migliore qualità riducendo, al contempo, le emissioni di gas che alterano drammaticamente ambiente e clima.

I risultati del nostro studio, coordinato da @Italian Climate Network –  Il Green Deal conviene, benefici per economia e lavoro in Italia al 2030 – indicano quali sono gli investimenti richiesti e le condizioni per creare valore aggiunto e aumentare una buona occupazione.  Le argomentazioni di questa pubblicazione anticipano da mesi molti dei temi relativi alla transizione ecologica, ultimamente molto citata dai giornali.

Quali sono, quindi, i criteri fondamentali da osservare e i dati da tenere presente per la strutturazione di piani e progettualità di sviluppo sostenibili?  

Sentiamo forte la necessità di comunicare i nostri risultati, per questo motivo abbiamo organizzato, grazie alla collaborazione di @ACRA, un webinar formativo rivolto a ai giovani della Scuola di attivismo di @Mani Tese, all’interno del progetto @FoodWave.

In questa occasione, il 15 marzo, il gruppo di ricercatori che ha partecipato allo studio ha presentato i capisaldi del piano di investimenti del Green Deal europeo, indagando in particolare gli aspetti occupazionali ed economici, oltre che ambientali, che esso comporterà da oggi al 2030.

È stata un’occasione per interloquire con alcuni portavoce di una generazione che, più di altre, si sta assumendo la responsabilità delle proprie azioni e dell’impatto che queste determinano sull’ambiente. I ricercatori di Està hanno così avuto modo di rispondere alle loro domande, condividere osservazioni critiche relative ai temi di interesse dei partecipanti e dimostrarsi un affidabile punto di riferimento per l’approfondimento della materia. 

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Perché migliorare la raccolta differenziata

15 Gennaio 2021

AUTORI

Emanuele Camisana, Francesca Federici, Massimiliano Lepratti

© Sean Loose, The Baker
© Sean Loose, The Baker
 

 

UNA DIFFERENZIAZIONE DEI RIFIUTI PIÙ EFFICIENTE COMPORTA 1 MILIARDO DI RISPARMI ANNUI PER I CITTADINI E 8 MILIONI DI TONNELLATE DI CO2  EQUIVALENTE IN MENO PER L’AMBIENTE.

I benefici che derivano da un’ottimale gestione dei rifiuti sono innumerevoli. Quanto potrebbero risparmiare cittadini in modo diretto? Quanta CO2 equivalente si eviterebbe di disperdere nell’ambiente?

I margini di miglioramento della gestione e raccolta dei rifiuti solidi urbani (RSU) sono ancora notevoli per il futuro prossimo. ESTà ha effettuato una stima puntuale sulla base dei dati ISPRA e dei coefficienti di Legambiente, calcolando per le tre frazioni di FORSU, carta/cartone e plastica i risultati che si potrebbero ottenere qualora si riuscisse ad intercettare la quasi totalità di ciò che ad oggi finisce ancora nell’indifferenziato (o negli ingombranti misti). 

Il risultato è stato determinato fissando come obiettivo da raggiungere, per la differenziazione delle tre frazioni citate, la composizione merceologica dei rifiuti indicata da ISPRA (sul totale dei RSU il 35,5% di organico, il 22,6% di carta/cartone e il 12,9% di imballaggi in plastica) e calcolando la differenza dei costi di gestione e smaltimento delle diverse frazioni rispetto all’indifferenziato. La frazione indifferenziata infatti determina maggiore inquinamento e maggiori costi a causa delle lavorazioni aggiuntive che il rifiuto deve subire e dello smaltimento in discarica o tramite incenerimento. Le altre frazioni, invece, permettono un minor inquinamento grazie al riciclo e risparmio di materia prima vergine, e minori costi anche grazie ai contributi che le aziende coinvolte nelle filiere di plastica e carta conferiscono al sistema CONAI.

 

Andare ad intercettare la parte delle 3 frazioni indicate che ancora non viene differenziata (3,6 milioni di tonnellate di FORSU, 3,4 di carta/cartone e 2,5 di plastica) determinerà un risparmio effettivo per i cittadini di circa 1 miliardo di euro (994,34 milioni) ed una riduzione delle emissioni di CO2 equivalente per circa 8 milioni di tonnellate (7,97 milioni). La corretta gestione di queste 9,55 milioni di tonnellate aggiuntive di rifiuti urbani consentirà anche un aumento occupazionale e di valore aggiunto.

È necessario sottolineare che il modello di analisi tiene conto della situazione attuale. Gli impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti attualmente in funzione non saranno sufficienti a soddisfare le esigenze del nostro paese: andranno costruiti progressivamente sempre più impianti e ampliati quelli esistenti, che con ogni probabilità utilizzeranno livelli tecnologici superiori. L’economia di scala, invece, consentirà l’abbattimento dei costi unitari di trattamento determinando un ulteriore risparmio. Il miglioramento andrà a ripercuotersi anche sugli impianti di smaltimento. Lo smaltimento in discarica dei RSU avrà un flusso minimo, portando a chiusura delle discariche con progressivi piani di ripristino ambientale dei siti. Anche gli impianti di incenerimento e coincenerimento subiranno una riduzione dei conferimenti.

Di seguito l’analisi dei dati, curata da Emanuele Camisana.

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

Una politica industriale utile per il clima e l’occupazione

29 Dicembre 2020

AUTORI

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano - EStà

© Terence Eduarte, 2016
© Terence Eduarte, 2016
 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 29.12.2020

  

La finalità di preservare la specie umana dai danni di un innalzamento della temperatura superiore a 1,5° (tra il 1880 e il 2100) sembra mettere d’accordo buona parte della pubblicistica nazionale, così come è indubbia la popolarità delle posizioni etiche di figure carismatiche come papa Francesco. Come sempre il problema più complesso non risiede nel campo dei principi generali, ma in quello delle scelte concrete che consentono o meno la realizzazione di quei principi. E su questo conviene provare a mettere un poco di ordine, superando il livello dell’aneddotica per porsi sul piano strutturale. La ricerca “Il green deal conviene” coordinata dall’Italian Climate Network e realizzata dall’associazione Està prova a porre quest’ordine, partendo dall’analisi degli obiettivi europei e nazionali. 

L’UE ha finalmente riconosciuto la necessità di ridurre del 55% tra il 1990 e il 2030 le emissioni dei gas ad effetto climalterante, un esito non scontato fino a poco tempo addietro e, sebbene inferiore a quanto richiesto dal Parlamento europeo (60%), estremamente sfidante per le scelte da compiere nel prossimo decennio. In Italia il piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) prodotto a livello interministeriale a fine 2019, ancor prima di poter essere attuato, risulta inadeguato in quanto costruito su un’ipotesi di riduzione dei gas climalteranti pari a meno del 40%.

La prima scelta concreta da compiere è quindi un adattamento degli obiettivi: l’Italia deve ridurre le sue emissioni di un 15% in più rispetto a quanto si riteneva l’anno scorso, ma questo 15% aggiuntivo si concentra tutto nei dieci anni tra il 2020 e il 2030. Per ottenere l’obiettivo le scelte principali possono concentrarsi sui soli aspetti ambientali, oppure possono combinare virtuosamente aspetti ambientali e aspetti socioeconomici, integrando diminuzione dei gas a effetto climalterante, aumento del valore aggiunto prodotto e aumento dell’occupazione. Questa seconda strada è ovviamente di gran lunga preferibile e su di essa si concentra la ricerca.

Il primo passaggio necessario è il riconoscimento dell’attuale struttura produttiva italiana e della sua dinamica recente. Il sistema produttivo nazionale ha conosciuto negli anni della crisi post 2008 un’involontaria svolta green a forte impatto sociale, dovuta alla chiusura di un alto numero di aziende manifatturiere altamente inquinanti e poco competitive. Nel periodo più vicino (2014-2019) il sistema nel suo complesso sembra aver iniziato una dinamica di disaccoppiamento: le emissioni diminuiscono (seppur di poco) a fronte di un (leggero) aumento di valore aggiunto e occupazione, dimostrando empiricamente come sia possibile diminuire l’impatto sul cambiamento climatico, aumentando allo stesso tempo PIL e occupazione.

Ma come rinforzare questa dinamica assolutamente troppo debole? I risultati di diverse ricerche convergono nel segnalare alcune priorità: il settore dei trasporti italiano risulta aver addirittura aumentato la sua quota di emissioni climalteranti dal 1990 al 2018 e il complesso degli edifici, in grandissima parte privati, ha avuto un eguale comportamento negativo, aggravato da una scarsa efficienza energetica. Entrambi questi settori assommano ciascuno circa un quarto delle attuali quote di produzione di CO2 equivalente; aggiungendo il settore della produzione e distribuzione dell’energia si arriva al 70% delle emissioni italiane.

A queste priorità è importante corrispondere azioni conseguenti e focalizzate sulle politiche industriali che, oltre a prospettare le migliori prestazioni in termini di riduzione delle emissioni, offrano le migliori opportunità in termini di crescita della ricchezza e dell’occupazione.

I sistemi di produzione e di consumo energetico basate sull’energia solare e combinati con una varietà di sistemi di accumulo sono senz’altro una risposta efficace sul piano climatico, ma perché diventino una risorsa per l’intero sistema economico ed occupazionale, non basta installarli. Occorre indirizzare il sistema produttivo del paese, a cominciare dai suoi enti di ricerca e dai suoi grandi attori a partecipazione pubblica, affinché l’Italia sia anche in grado di produrre e vendere gli strumenti tecnologicamente più avanzati per lo sfruttamento dell’intero ciclo del solare, evitando di arricchire solo i produttori di paesi esteri. Discorsi analoghi riguardano i sistemi di trasporto, i sistemi di costruzione e ristrutturazione delle abitazioni, nonché di produzione degli strumenti per lo sfruttamento e l’accumulo dell’energia eolica. Ognuno di questi interventi è l’occasione per creare una filiera nazionale tecnologicamente avanzata, ma le condizioni per farlo sono ciò che una politica industriale seria richiede: concentrarsi su poche grandi priorità ed evitare interventi a pioggia su prospettive di breve respiro (ad esempio quelle legate all’energia fossile altamente inquinante come il gas, necessariamente destinato all’abbandono in tempi non lunghi).

Una politica industriale, per il clima, per la ricchezza e per l’occupazione. L’occasione è ghiotta, la sfida non rinviabile.

 

Massimiliano Lepratti, Roberto Romano

 

© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

VIDEO: Perchè il Green Deal conviene all’Italia

È possibile produrre più ricchezza, avere più occupazione e ridurre le emissioni di gas climalteranti? EStà, coordinata da Italian Climate Network, ha studiato come rispondere positivamente a queste domande e come l’Italia del 2030, grazie al Green Deal, possa andare verso la neutralità climatica con più ricchezza e più occupati.

L’analisi della realtà produttiva dal 1990 ad oggi ci illustra i cinque problemi che rallentano il raggiungimento degli obiettivi in Italia.

  1. Gli edifici vetusti, non ristrutturati, e di conseguenza ad alto consumo di energia fossile.
  2. I trasporti con moltissime vetture private di cui solo pochissime elettriche.
  3. Il suolo povero di carbonio e con basse capacità di assorbimento.
  4. Le foreste italiane mal gestite e il cui legname poco e mal utilizzato.
  5. Le industrie, e in particolare quelle che investono meno nelle innovazioni, come i trasporti e la produzione di energia.

Come richiesto dal Green Deal, per superare questi problemi entro il 2030 l’Italia dovrà aumentare del 78% gli investimenti previsti dal PNIEC (Piano Nazionale energia e Clima, approvato nel 2019) nei principali settori strategici. Nei trasporti incrementando il numero di veicoli elettrici; nelle energie rinnovabili, per esempio installando un gran numero di pannelli fotovoltaici; e nel settore edilizio con ampi investimenti nelle ristrutturazioni.

Questi sforzi porterebbero ad un incremento del PIL dell’8% e oltre 600.000 occupati stabili in più da qui al 2030.

Ma quali numeri potremmo ottenere se gli investimenti fossero più innovativi?

Se ad esempio attraverso l’agricoltura conservativa aumentassimo la capacità di assorbimento del carbonio nei terreni e con una migliore gestione delle foreste e un migliore utilizzo del legname riducessimo le emissioni di anidride carbonica in dieci anni il PIL salirebbe di un ulteriore 4,1%, conteremmo oltre 400.000 occupati in più e oltre centinaia di milioni di tonnellate di CO2 in meno.

Ma non è finita qui: ai benefici economici e sociali si aggiungerebbero quelli ambientali ed ecologici, la riduzione dell’inquinamento dell’aria e un miglioramento dello stato di salute di suoli e foreste.

IL GREEN DEAL CONVIENE

È possibile produrre più ricchezza, avere più occupazione e ridurre le emissioni di gas climalteranti? È possibile spostare la produzione e gli occupati da ambiti che “lavorano male” sul piano ambientale, ad ambiti che producono livelli molto bassi di CO2 equivalente? Ed è possibile farlo ottenendo allo stesso tempo un aumento del valore aggiunto e un aumento degli occupati?
Questo studio, coordinato da Italian Climate Network, e realizzato dall’associazione EStà (Economia e sostenibilità), ha preso in esame le condizioni affinché questi obiettivi vengano raggiunti congiuntamente e l’Italia nel 2030 possa avere più ricchezza e più occupati grazie al Green Deal.

L’analisi della realtà produttiva tra il 1990 e oggi ci dice che i problemi nazionali sono rappresentati dai settori industriali in cui si investe poco in innovazione tecnologica (trasporto- magazzinaggio, energia), da una scarsa capacità di evoluzione del sistema del trasporto privato e dalle scarse prestazioni energetiche degli edifici..

Per raggiungere gli obiettivi climatici al 2050 l’Italia deve quasi raddoppiare gli investimenti e aumentare di molto gli sforzi pubblici, a partire dai prossimi dieci anni. Gli investimenti del periodo 2021 – 2030 nei settori strategici devono salire dai 1000 miliardi previsti dal PNIEC (Piano Nazionale energia e Clima, approvato nel 2019) alla cifra di 1780 miliardi. Entro il 2030 i trasporti necessitano di un tasso di elettrificazione dei veicoli su strada pari almeno al 30%; l’energia rinnovabile di un’installazione di pannelli fotovoltaici su circa il 4% del parco residenziale esistente; gli edifici di un investimento annuale per i settori residenziale e commerciale-pubblico pari a 21 miliardi.

Questi sforzi si tradurrebbero da qui al 2030 in una maggiore crescita del PIL pari all’8% circa ed in un aumento di 600.000 unità lavorative, stabili nel decennio,

Numeri che migliorerebbero ulteriormente nel caso in cui l’Italia mirasse i suoi investimenti verso gli ambiti green a maggior contenuto tecnologico. Attraverso l’indagine statistico-econometrica, si è calcolato infatti che 7 miliardi annui di investimenti aggiuntivi in tecnologia green avanzata, rispetto agli stessi 7 miliardi investiti in tecnologia a basso contenuto innovativo, porterebbero a una crescita continua di ore lavorate e PIL, fino ad avere nel 2030 circa 400.000 occupati e circa 70 miliardi annui di PIL (il 4,1%) ulteriori.
Numeri che sottolineano la necessità di aumentare la spesa in Ricerca e sviluppo e gli sforzi di industrializzazione dei brevetti, per far sì che il nostro paese non resti nelle retrovie dell’innovazione, limitandosi ad acquistare la tecnologia green prodotta da altri.

Questi sforzi negli ambiti industriali andrebbero accompagnati da un aumento rilevante della capacità di assorbimento del carbonio sia nei terreni agricoli, attraverso le tecniche di agricoltura conservativa, sia nelle foreste, per mezzo di una loro migliore gestione e di un miglior utilizzo del legname; queste azioni avrebbero il duplice vantaggio di ridurre le emissioni e incrementare gli assorbimenti naturali svolgendo un ruolo strategico per raggiungere la piena neutralità climatica entro il 2050.

Gli sforzi economici avrebbero non solo ricadute positive in termini di PIL e occupazione: i benefici nascosti (ambientali e sociali) sono numerosi: la riduzione dell’inquinamento dell’aria e una positiva ricaduta sul sistema sanitario nonché l’incremento dello stato di salute di suoli e foreste.

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Industria e finanza alla sfida climatica

Industria e finanza alla sfida climatica

6 Dicembre 2019

Convegno "Industria e finanza alla sfida climatica". Massimiliano Lepratti, Andrea Calori, Riccardo Sanna, Alessandro Pagano, Elena Lattuada
 

Perché la Spagna ha un consumo di suolo ridotto? La manifattura condiziona gli impatti ecologi dell’agricoltura? Quanto tempo passa in Italia perché un invenzione diventi innovazione? Quanti ricercatori lavorano in Germania per le due maggiori organizzazioni di ricerca? Che rapporto c’è tra brevetti ambientali e contenuto di CO2 della produzione di un paese? Qual è il paese europeo che ha maggiormente ridotto i suoi impatti in termini di emissioni?

Le domande degli working paper presentati da EStà il 29 novembre hanno prodotto non solo risposte, ma anche una serie di nuove domande di cui nelle righe precedenti si trova un assaggio.

Capire quali settori economici emettono più CO2 per unità di euro, perché questo avviene, cosa può fare la finanza per favorire la decarbonizzazione e cosa deve fare l’ente pubblico perché l’Italia rispetti gli obiettivi di Parigi sono tutti punti di un’agenda di ricerca che durante il convegno EStà ha posto, e che ha mostrato tutte le sue potenzialità maieutiche.

Convegno “Industria e finanza alla sfida climatica”. Andrea Calori, Emanuele Camisana e Paolo Maranzano

Chi c’era ne è uscito con due punti fermi:

  1. 1. la collaborazione di economisti capaci di approcci non mainstream con i mondi produttivi, finanziari e ambientali è necessaria per indirizzare le ricerche sulla transizione ecologica verso le domande giuste; e
  2. 2. senza le risposte alle domande giuste è impossibile pensare a una transizione efficace.

Da gennaio EStà continuerà il lavoro, per capire in quali campi è prioritario proseguire le indagini, con quali domande aggiornate e con chi.

Venerdì 29 Novembre 2019 – Sala Rodolfi – Università Bicocca, Milano.

#SDGs @unimib

Le sfide nascoste della Green economy

Le sfide nascoste della Green economy

11 Novembre 2019

 

Sebbene l’obiettivo della riduzione del riscaldamento climatico di 2 gradi sia al centro dell’agenda mondiale, non è emerso un modello d’analisi capace di combinare difesa dell’ambiente e paradigma tecno-economico Green, con tutte le implicazioni tecnologiche sottese; i paradigmi tecno-economici si affermano quando si esaurisce un modello di riferimento e la tecnologia emergente permette di soddisfare la nuova domanda. Paradigma green sottende una combinazione tra offerta e domanda di beni e servizi che incorporano maggiore conoscenza, unitamente ad una intensità energetica e inquinante (CO2) più contenuta. L’associazione Està ha indagato il dare e l’avere della Green Economy e delineato i c.d. beni capitali, intermedi e di consumo (dal lato della domanda e dell’offerta) connessi al nuovo paradigma. I risultati sono inediti e smentiscono il modus operandi delle politiche ambientali piegate sui soli costi, mostrando un ritratto più completo della Green economy e svelando le insidie che una sua interpretazione semplificata nasconde per l’industria, la finanza e la politica. 

Il centro studi non profit EStà, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, ha predisposto 4 working paper (capitale, finanza, struttura e matrice) tesi a delineare le policy che meglio di altre possono implementare il progetto ambizioso di un green new deal. 

A Milano, il 29 novembre dalle 14.00 alle 18.30 presso l’Università Bicocca – Sala Rodolfi – per iscrizioni: barbara.terrone@assesta.it – in occasione del Convegno “Aumentare la ricchezza, diminuire la CO2. Industria e finanza alla sfida climatica” discuteremo proprio dei vincoli di struttura con il mondo accademico e le parti sociali.

1) L’impatto degli effetti climalteranti sul PIL è per lo più misurato in termini di costi, trascurando il capitale ; in realtà i costi di qualcuno sono anche un reddito per altri: la messa in sicurezza di un’area, il risanamento di un territorio, il disinquinamento delle falde acquifere e/o la ricerca di falde più profonde, sono effetti del cambiamento climatico che potrebbero diventare reddito in presenza di una politica economica all’altezza. La disputa sui costi fa ombra a qualcosa di più profondo, ossia la quantità di capitale nazionale che rischia seriamente di essere compromesso perché distrutto o reso inutilizzabile dagli effetti climalteranti. Più precisamente, considerate le previsioni sulle inondazioni, ci sono ampie porzioni di territorio che rischiano di essere private di capitale tout court e di valore aggiunto.

2) La finanza non può essere trascurata. Con quali lenti la politica monetaria guarda al cambiamento climatico? Nei più importanti documenti istituzionali, compresi quelli della Banca d’Italia, il tema è connesso ai parametri ESG (criteri ambientali, sociali e di governo), che permetterebbero la predisposizione di bond collegati agli obiettivi climatici. Purtroppo, le dinamiche finanziarie, anche quando inserite nella cornice dei parametri ESG, con difficoltà considerano i alcuni rischi rilevanti; per esempio il rischio di erogare più credito-capitale nelle zone a minor vulnerabilità climatica – dove ci sarebbe meno necessità di credito-capitale da investire – rispetto ad aree ad alta vulnerabilità; o ancora il rischio speculativo, cioè la creazione di bolle in un nuovo macro settore ritenuto ad alto potenziale di redditività. In tutti i casi resterebbe eluso il nodo strategico principale: uno degli ostacoli allo sviluppo del mercato delle obbligazioni verdi è la mancanza di progetti green, così come di misure politiche volte a rafforzare gli investimenti dell’economia reale in beni e infrastrutture verdi, essenziali per raggiungere gli obiettivi posti dagli accordi climatici di Parigi 2015.

3) Sarebbe il caso di indagare la relazione tra andamento di CO2, PIL e struttura produttiva. Nonostante vi sia accordo pressoché unanime sull’obiettivo di ridurre la CO2 per contenere gli effetti climalteranti, questo orizzonte è stato storicamente interpretato da taluni come un vincolo alla crescita e/o come vincolo all’uso delle risorse naturali. Da diverse parti, inoltre, si è manifestata l’intenzione di introdurre tasse di scopo per implementare il principio di chi “inquina paga”. Sarebbe molto più opportuna la rilevazione di una base imponibile coerente slegata dal consumo, introducendo un criterio di progressività connessa alla CO2. La sfida più importante si colloca in ogni caso nella relazione tra emissione di CO2 e struttura produttiva (modello di sviluppo). Osservando alcuni indicatori di sistema dei principali paesi europei (brevetti, R&S, investimenti verdi, PIL), si osserva che non tutti i paesi registrano gli stessi andamenti (E. Camisana). Le differenze sono legate alla struttura produttiva: tanto più questa è orientata alla Green Economy, tanto più mostra maggiori tassi di crescita e viceversa. La Green economy poggia sull’industrializzazione della ricerca e sulla politica pubblica; la distanza tra i paesi fotografa il loro posizionamento tecno-economico e la relativa possibilità di diventare protagonisti del cambiamento. Questo tema emerge con nettezza se misuriamo le relazioni determinate dalla produzione e dalla circolazione dei beni tra i vari settori in cui si articola un sistema economico, secondo l’approccio definito dall’economista russo Wassily Leontief. Ad un primo livello di indagine, emerge come il settore della manifattura industriale, rispetto ad altri maggiormente considerati dalla narrazione mainstream (trasporti, agricoltura) sia quello che meglio di altri reagisce in termini di de-carbonizzazione rispetto agli stimoli coordinati di Ricerca e sviluppo e brevettazione, oltre ad essere il settore strategico della Green economy in quanto cede i beni utilizzati dai settori, agricolo, dei trasporti, della climatizzazione etc.

Anche solo considerando queste prime indagini, emergono spunti sufficienti per stimolare disegni di politiche economiche adatte alle sfide dei prossimi anni, e per definire contemporaneamente una Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile per il settore della manifattura industriale. 

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

11 Luglio 2019

 

Le analisi che spiegano il ritardo economico italiano e lombardo con il costo del lavoro, la rigidità del mercato, l’invadenza dell’economia pubblica e, peggio ancora, con la mancanza di tutela dei prodotti made in Italy (Lombardy), appaiono di breve respiro e insoddisfacenti. I problemi di struttura della manifattura nazionale e lombarda hanno infatti radici lontane e persistenti che datano almeno all’inizio degli anni ‘90. Per inquadrare e interpretare correttamente la complessità occorre quindi partire dalle domande giuste.

Il report è costruito su due parti distinte ma comunicanti. Dopo la presentazione del modello macroeconomico interpretativo, la prima parte del lavoro si domanda innanzitutto quale sia il ruolo esercitato dall’Europa nel sistema economico, per le politiche europee recenti in campo industriale e per la ricerca e sviluppo, a questo si affianca uno studio sui brevetti, evidenziando la coerenza tra i due campi e il posizionamento dell’Italia e della Lombardia nel secondo.

La seconda parte del lavoro delinea il posizionamento della manifattura di Italia e Lombardia nel consesso europeo, comparando in particolare la produzione dei beni capitali e l’intensità tecnologica degli investimenti, collegando queste evidenze con il problema del vincolo tecnologico estero. La seconda parte continua con l’analisi della manifattura lombarda per provincia, e della polarizzazione centro-periferia. Le ultime pagine (conclusioni) delineano le questioni su cui sarebbe il caso che la politica, gli imprenditori e il sindacato inizino a lavorare.

Il metodo sotteso all’indagine è quello comparativo: tutte le statistiche vengono confrontate tra paesi e regioni; diversamente sarebbe impossibile rispondere alla domanda generale alla base di questa sezione, ossia se la Lombardia sia una regione strutturalmente europea, oppure una regione ai margini dello sviluppo continentale.

↓ Scarica la ricerca La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

25 Giugno 2019

 

Milano 27 giugno 2019 h. 10

Auditorium Levi dell’Università Statale

Via Valvassori  Peroni 21

Discussione della ricerca

“La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda”.

La Fiom CGIL Lombardia, con la collaborazione scientifica dell’associazione Economia e Sostenibilità (EStà), ha svolto una ricerca sull’industria lombarda. L’analisi è stata condotta attraverso due distinte prospettive, una di taglio macroeconomico e una di taglio microeconomico. La prima ha analizzato i dati relativi alla produzione metalmeccanica regionale, ponendoli in relazione con le politiche di ricerca dell’Unione europea e con i risultati di altre regioni e stati continentali. La seconda ha analizzato per l’intero periodo 2008 – 2017 i dati di bilancio delle aziende metalmeccaniche lombarde, ponendo in relazione valore aggiunto, costo del lavoro, occupazione, investimenti immateriali.

 

Programma

h. 9.45 Saluti dal rettore dell’Università statale

h. 10 Introduzione di Alessandro Pagano – FIOM CGIL Lombardia e Andrea Di Stefano – EStà.

h 10.15 Prima sessione: “Crescita, specializzazione manifatturiera e paradigma tecnologico: il caso italiano e lombardo a confronto con l’Europa”

·       Presentazione di Roberto Romano – CGIL Lombardia – EStà

·       Discussione con, Silvia Spera – Segreteria CGIL Lombardia; Gianni Pietro Girotto – Presidente Commissione Industria, Commercio, Turismo del Senato*; Mario Noera – Università Bocconi.

 

h. 11.15 Seconda sessione: “Valore aggiunto, redditività e lavoro nelle imprese metalmeccaniche lombarde”

·       Presentazione di Alessandro Santoro – Università Bicocca.

·       Discussione con Attilio Fontana – Presidente Regione Lombardia*, Elena Lattuada – Segretario Generale CGIL Lombardia; Livio Romano – Centro Studi Confindustria; Anna Maria Variato – Università di Bergamo.

h. 12.15 Conclusioni di Francesca Re David – Fiom CGIL.

Modera Massimiliano Lepratti – EStà

* In attesa di conferma