Voto, società, politiche e quadro finanziario

Voto, società, politiche e quadro finanziario

15 Novembre 2022

© Masha Krasnova-Shabaeva, 2010
© Masha Krasnova-Shabaeva, 2010

di Roberto Romano

 

L’esito delle elezioni (settembre 2022) ha sollevato riflessioni politiche ed economiche, se non culturali, che sottendono una serie di domande che meglio di altre potrebbero aiutare la comprensione dei fenomeni sociali alla base dei risultati.

La domanda fondamentale che la narrazione più o meno condivisa rimuove è la seguente: dopo trent’anni di politiche economiche restrittive, in cui il lavoro è scivolato non solo ai margini dell’analisi economica, ma anche al margine dell’attività politica, unitamente a una prospettiva economico-sociale che rimuove il lavoro come soggetto del cambiamento, era possibile un esito elettorale diverso? 

Sebbene la Storia ci ricordi che la partecipazione è parte integrante dello sviluppo economico e sociale, non appena si interrompe questo processo la partecipazione diventa un lusso che 1) polarizza la società e 2) la piega su dispute che riflettono lo stato d’animo (cultura) dei più o meno agiati, mentre il malessere (40% della popolazione) non si riconosce più nei partiti o leader che li guidano. 

Il voto di settembre, forse, non è mai stato così limpido. Da un lato abbiamo quasi il 40% di astensione, che per alcune categorie lambisce il 50% degli aventi diritto (disoccupati) e il 45% tra gli operai e affini; da un altro lato la potenziale coalizione di governo può contare solo sul 27% degli aventi diritto al voto. Un governo indiscutibilmente di minoranza, ma con una rappresentanza sociale che potrebbe condizionarlo. In effetti, il centrodestra intercetta il 55% del voto operaio che si è espresso, contro il 15% della coalizione di centrosinistra. I 5 Stelle intercettano quasi il 17% del voto operaio, che ben si bilancia con il 24% di disoccupati e inoccupati, diversamente dal centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra-Più Europa) che raccoglie il 21%. A proposito di disoccupati e inoccupati, il centrodestra intercetta quasi il 43% dei voti, con un risultato (sorprendente?) di Fratelli d’Italia che sfiora il 21%. In altri termini, i 5 Stelle sono il soggetto politico più rappresentativo di questa particolare categoria. Il Reddito di Cittadinanza è stato evidentemente percepito come uno strumento utile da quelle persone di cui pochi vogliono farsi carico.

Solo i pensionati sembrano fedeli alla Storia del Paese, sebbene in misura più contenuta. Infatti, Fratelli d’Italia supera il PD con quasi il 28% dei votanti, seguito dal PD (27%) e 5 Stelle (10%).

Al netto degli studenti che hanno votato a maggioranza 5 Stelle (25%), seguiti da PD (24%), Più Europa (11%), Fratelli d’Italia (10%) e Verdi-Sinistra (9%), perché la così detta sinistra non ha intercettato il voto storico di appartenenza? Dipende dalle politiche che ha seguito quando era al governo? Dalla perdita del legame storico con le classi popolari e dalla capacità e desiderio di rappresentare il disagio sociale nella sfera politica?

Queste domande non possono essere affrontate guardando a quanto accaduto nel recente passato. La Storia è lenta, ma prima o poi presenta il conto di 30 anni di politiche economiche e sociali. Occorre partire dal 1990 per catturare come la società e il ben-essere siano cambiati nel tempo. Senza questa narrazione sarebbe tecnicamente impossibile leggere quanto accaduto. La Storia conta e senza la conoscenza di questa Storia non è possibile rimediare alcunché. 

Da un lato abbiamo un PIL reale nazionale che ormai è distante da quello tedesco e francese e, tra le altre cose, non ha nemmeno recuperato le posizioni del 2007. Gli investimenti, che restituiscono la percezione del futuro, sono in rapporto al PIL sempre più bassi dell’area euro e dei paesi considerati. In qualche modo, il livello degli investimenti è l’altra faccia della specializzazione produttiva. Al Paese non servono più investimenti data la bassa specializzazione del sistema economico in generale. Anche i consumi reali seguono l’andamento del PIL e fanno il paio con la crescita dell’avanzo commerciale, sostanzialmente legato alla dinamica del costo del lavoro e alla caduta dei consumi che hanno contratto le importazioni, unitamente a un indice GINI in costante crescita, sebbene in misura meno accentuata a partire dal 2002. 

Per comprendere come il lavoro sia stato vittima di alcune politiche, possiamo indagare l’output per occupato a partire dal 1990. La storia è poco nota, ma la cosiddetta produttività nazionale era più alta di Francia e Germania tra il 1990 e il 2002. Dopo diventa una frazione di quella dei Paesi menzionati. Ma non è tutto. I salari versus la produttività tra il 1990 e il 2021 restituiscono qualcosa di impopolare, una sorta di spirale che passa da un lieve miglioramento fino al 2007, per poi ritornare alle stesse posizioni del 1992 per ciò che riguarda i salari. In altri termini, le politiche del lavoro hanno eroso il salario e ridotto la produttività, lasciando inermi e sconsolati proprio il riferimento sociale storico della sinistra.

Si poteva fare diversamente. Sebbene le politiche europee abbiano condizionato le politiche, queste potevano anche avere un segno diverso, se solo si fosse ascoltato il proprio corpo elettorale. 

Ora la destra sembrerebbe rappresentare il lavoro, i disoccupati e una parte non banale dei pensionati. Hanno davanti a sé una legge di bilancio scritta da altri. Difficile modificare il segno date le disponibilità finanziarie, almeno che non si riscriva la matrice dell’economia italiana. Nel frattempo, la sinistra farebbe bene a raccontare tutta la storia e non cadere in un’idea di politica come esercizio riservato alle persone più agiate.

IL GREEN DEAL CONVIENE

È possibile produrre più ricchezza, avere più occupazione e ridurre le emissioni di gas climalteranti? È possibile spostare la produzione e gli occupati da ambiti che “lavorano male” sul piano ambientale, ad ambiti che producono livelli molto bassi di CO2 equivalente? Ed è possibile farlo ottenendo allo stesso tempo un aumento del valore aggiunto e un aumento degli occupati?
Questo studio, coordinato da Italian Climate Network, e realizzato dall’associazione EStà (Economia e sostenibilità), ha preso in esame le condizioni affinché questi obiettivi vengano raggiunti congiuntamente e l’Italia nel 2030 possa avere più ricchezza e più occupati grazie al Green Deal.

L’analisi della realtà produttiva tra il 1990 e oggi ci dice che i problemi nazionali sono rappresentati dai settori industriali in cui si investe poco in innovazione tecnologica (trasporto- magazzinaggio, energia), da una scarsa capacità di evoluzione del sistema del trasporto privato e dalle scarse prestazioni energetiche degli edifici..

Per raggiungere gli obiettivi climatici al 2050 l’Italia deve quasi raddoppiare gli investimenti e aumentare di molto gli sforzi pubblici, a partire dai prossimi dieci anni. Gli investimenti del periodo 2021 – 2030 nei settori strategici devono salire dai 1000 miliardi previsti dal PNIEC (Piano Nazionale energia e Clima, approvato nel 2019) alla cifra di 1780 miliardi. Entro il 2030 i trasporti necessitano di un tasso di elettrificazione dei veicoli su strada pari almeno al 30%; l’energia rinnovabile di un’installazione di pannelli fotovoltaici su circa il 4% del parco residenziale esistente; gli edifici di un investimento annuale per i settori residenziale e commerciale-pubblico pari a 21 miliardi.

Questi sforzi si tradurrebbero da qui al 2030 in una maggiore crescita del PIL pari all’8% circa ed in un aumento di 600.000 unità lavorative, stabili nel decennio,

Numeri che migliorerebbero ulteriormente nel caso in cui l’Italia mirasse i suoi investimenti verso gli ambiti green a maggior contenuto tecnologico. Attraverso l’indagine statistico-econometrica, si è calcolato infatti che 7 miliardi annui di investimenti aggiuntivi in tecnologia green avanzata, rispetto agli stessi 7 miliardi investiti in tecnologia a basso contenuto innovativo, porterebbero a una crescita continua di ore lavorate e PIL, fino ad avere nel 2030 circa 400.000 occupati e circa 70 miliardi annui di PIL (il 4,1%) ulteriori.
Numeri che sottolineano la necessità di aumentare la spesa in Ricerca e sviluppo e gli sforzi di industrializzazione dei brevetti, per far sì che il nostro paese non resti nelle retrovie dell’innovazione, limitandosi ad acquistare la tecnologia green prodotta da altri.

Questi sforzi negli ambiti industriali andrebbero accompagnati da un aumento rilevante della capacità di assorbimento del carbonio sia nei terreni agricoli, attraverso le tecniche di agricoltura conservativa, sia nelle foreste, per mezzo di una loro migliore gestione e di un miglior utilizzo del legname; queste azioni avrebbero il duplice vantaggio di ridurre le emissioni e incrementare gli assorbimenti naturali svolgendo un ruolo strategico per raggiungere la piena neutralità climatica entro il 2050.

Gli sforzi economici avrebbero non solo ricadute positive in termini di PIL e occupazione: i benefici nascosti (ambientali e sociali) sono numerosi: la riduzione dell’inquinamento dell’aria e una positiva ricaduta sul sistema sanitario nonché l’incremento dello stato di salute di suoli e foreste.

IT

ENG

Industria e finanza alla sfida climatica

Industria e finanza alla sfida climatica

6 Dicembre 2019

Convegno "Industria e finanza alla sfida climatica". Massimiliano Lepratti, Andrea Calori, Riccardo Sanna, Alessandro Pagano, Elena Lattuada
 

Perché la Spagna ha un consumo di suolo ridotto? La manifattura condiziona gli impatti ecologi dell’agricoltura? Quanto tempo passa in Italia perché un invenzione diventi innovazione? Quanti ricercatori lavorano in Germania per le due maggiori organizzazioni di ricerca? Che rapporto c’è tra brevetti ambientali e contenuto di CO2 della produzione di un paese? Qual è il paese europeo che ha maggiormente ridotto i suoi impatti in termini di emissioni?

Le domande degli working paper presentati da EStà il 29 novembre hanno prodotto non solo risposte, ma anche una serie di nuove domande di cui nelle righe precedenti si trova un assaggio.

Capire quali settori economici emettono più CO2 per unità di euro, perché questo avviene, cosa può fare la finanza per favorire la decarbonizzazione e cosa deve fare l’ente pubblico perché l’Italia rispetti gli obiettivi di Parigi sono tutti punti di un’agenda di ricerca che durante il convegno EStà ha posto, e che ha mostrato tutte le sue potenzialità maieutiche.

Convegno “Industria e finanza alla sfida climatica”. Andrea Calori, Emanuele Camisana e Paolo Maranzano

Chi c’era ne è uscito con due punti fermi:

  1. 1. la collaborazione di economisti capaci di approcci non mainstream con i mondi produttivi, finanziari e ambientali è necessaria per indirizzare le ricerche sulla transizione ecologica verso le domande giuste; e
  2. 2. senza le risposte alle domande giuste è impossibile pensare a una transizione efficace.

Da gennaio EStà continuerà il lavoro, per capire in quali campi è prioritario proseguire le indagini, con quali domande aggiornate e con chi.

Venerdì 29 Novembre 2019 – Sala Rodolfi – Università Bicocca, Milano.

#SDGs @unimib

Le sfide nascoste della Green economy

Le sfide nascoste della Green economy

11 Novembre 2019

 

Sebbene l’obiettivo della riduzione del riscaldamento climatico di 2 gradi sia al centro dell’agenda mondiale, non è emerso un modello d’analisi capace di combinare difesa dell’ambiente e paradigma tecno-economico Green, con tutte le implicazioni tecnologiche sottese; i paradigmi tecno-economici si affermano quando si esaurisce un modello di riferimento e la tecnologia emergente permette di soddisfare la nuova domanda. Paradigma green sottende una combinazione tra offerta e domanda di beni e servizi che incorporano maggiore conoscenza, unitamente ad una intensità energetica e inquinante (CO2) più contenuta. L’associazione Està ha indagato il dare e l’avere della Green Economy e delineato i c.d. beni capitali, intermedi e di consumo (dal lato della domanda e dell’offerta) connessi al nuovo paradigma. I risultati sono inediti e smentiscono il modus operandi delle politiche ambientali piegate sui soli costi, mostrando un ritratto più completo della Green economy e svelando le insidie che una sua interpretazione semplificata nasconde per l’industria, la finanza e la politica. 

Il centro studi non profit EStà, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, ha predisposto 4 working paper (capitale, finanza, struttura e matrice) tesi a delineare le policy che meglio di altre possono implementare il progetto ambizioso di un green new deal. 

A Milano, il 29 novembre dalle 14.00 alle 18.30 presso l’Università Bicocca – Sala Rodolfi – per iscrizioni: barbara.terrone@assesta.it – in occasione del Convegno “Aumentare la ricchezza, diminuire la CO2. Industria e finanza alla sfida climatica” discuteremo proprio dei vincoli di struttura con il mondo accademico e le parti sociali.

1) L’impatto degli effetti climalteranti sul PIL è per lo più misurato in termini di costi, trascurando il capitale ; in realtà i costi di qualcuno sono anche un reddito per altri: la messa in sicurezza di un’area, il risanamento di un territorio, il disinquinamento delle falde acquifere e/o la ricerca di falde più profonde, sono effetti del cambiamento climatico che potrebbero diventare reddito in presenza di una politica economica all’altezza. La disputa sui costi fa ombra a qualcosa di più profondo, ossia la quantità di capitale nazionale che rischia seriamente di essere compromesso perché distrutto o reso inutilizzabile dagli effetti climalteranti. Più precisamente, considerate le previsioni sulle inondazioni, ci sono ampie porzioni di territorio che rischiano di essere private di capitale tout court e di valore aggiunto.

2) La finanza non può essere trascurata. Con quali lenti la politica monetaria guarda al cambiamento climatico? Nei più importanti documenti istituzionali, compresi quelli della Banca d’Italia, il tema è connesso ai parametri ESG (criteri ambientali, sociali e di governo), che permetterebbero la predisposizione di bond collegati agli obiettivi climatici. Purtroppo, le dinamiche finanziarie, anche quando inserite nella cornice dei parametri ESG, con difficoltà considerano i alcuni rischi rilevanti; per esempio il rischio di erogare più credito-capitale nelle zone a minor vulnerabilità climatica – dove ci sarebbe meno necessità di credito-capitale da investire – rispetto ad aree ad alta vulnerabilità; o ancora il rischio speculativo, cioè la creazione di bolle in un nuovo macro settore ritenuto ad alto potenziale di redditività. In tutti i casi resterebbe eluso il nodo strategico principale: uno degli ostacoli allo sviluppo del mercato delle obbligazioni verdi è la mancanza di progetti green, così come di misure politiche volte a rafforzare gli investimenti dell’economia reale in beni e infrastrutture verdi, essenziali per raggiungere gli obiettivi posti dagli accordi climatici di Parigi 2015.

3) Sarebbe il caso di indagare la relazione tra andamento di CO2, PIL e struttura produttiva. Nonostante vi sia accordo pressoché unanime sull’obiettivo di ridurre la CO2 per contenere gli effetti climalteranti, questo orizzonte è stato storicamente interpretato da taluni come un vincolo alla crescita e/o come vincolo all’uso delle risorse naturali. Da diverse parti, inoltre, si è manifestata l’intenzione di introdurre tasse di scopo per implementare il principio di chi “inquina paga”. Sarebbe molto più opportuna la rilevazione di una base imponibile coerente slegata dal consumo, introducendo un criterio di progressività connessa alla CO2. La sfida più importante si colloca in ogni caso nella relazione tra emissione di CO2 e struttura produttiva (modello di sviluppo). Osservando alcuni indicatori di sistema dei principali paesi europei (brevetti, R&S, investimenti verdi, PIL), si osserva che non tutti i paesi registrano gli stessi andamenti (E. Camisana). Le differenze sono legate alla struttura produttiva: tanto più questa è orientata alla Green Economy, tanto più mostra maggiori tassi di crescita e viceversa. La Green economy poggia sull’industrializzazione della ricerca e sulla politica pubblica; la distanza tra i paesi fotografa il loro posizionamento tecno-economico e la relativa possibilità di diventare protagonisti del cambiamento. Questo tema emerge con nettezza se misuriamo le relazioni determinate dalla produzione e dalla circolazione dei beni tra i vari settori in cui si articola un sistema economico, secondo l’approccio definito dall’economista russo Wassily Leontief. Ad un primo livello di indagine, emerge come il settore della manifattura industriale, rispetto ad altri maggiormente considerati dalla narrazione mainstream (trasporti, agricoltura) sia quello che meglio di altri reagisce in termini di de-carbonizzazione rispetto agli stimoli coordinati di Ricerca e sviluppo e brevettazione, oltre ad essere il settore strategico della Green economy in quanto cede i beni utilizzati dai settori, agricolo, dei trasporti, della climatizzazione etc.

Anche solo considerando queste prime indagini, emergono spunti sufficienti per stimolare disegni di politiche economiche adatte alle sfide dei prossimi anni, e per definire contemporaneamente una Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile per il settore della manifattura industriale. 

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

La sostenibilità economica e finanziara dell’industria lombarda

11 Luglio 2019

 

Le analisi che spiegano il ritardo economico italiano e lombardo con il costo del lavoro, la rigidità del mercato, l’invadenza dell’economia pubblica e, peggio ancora, con la mancanza di tutela dei prodotti made in Italy (Lombardy), appaiono di breve respiro e insoddisfacenti. I problemi di struttura della manifattura nazionale e lombarda hanno infatti radici lontane e persistenti che datano almeno all’inizio degli anni ‘90. Per inquadrare e interpretare correttamente la complessità occorre quindi partire dalle domande giuste.

Il report è costruito su due parti distinte ma comunicanti. Dopo la presentazione del modello macroeconomico interpretativo, la prima parte del lavoro si domanda innanzitutto quale sia il ruolo esercitato dall’Europa nel sistema economico, per le politiche europee recenti in campo industriale e per la ricerca e sviluppo, a questo si affianca uno studio sui brevetti, evidenziando la coerenza tra i due campi e il posizionamento dell’Italia e della Lombardia nel secondo.

La seconda parte del lavoro delinea il posizionamento della manifattura di Italia e Lombardia nel consesso europeo, comparando in particolare la produzione dei beni capitali e l’intensità tecnologica degli investimenti, collegando queste evidenze con il problema del vincolo tecnologico estero. La seconda parte continua con l’analisi della manifattura lombarda per provincia, e della polarizzazione centro-periferia. Le ultime pagine (conclusioni) delineano le questioni su cui sarebbe il caso che la politica, gli imprenditori e il sindacato inizino a lavorare.

Il metodo sotteso all’indagine è quello comparativo: tutte le statistiche vengono confrontate tra paesi e regioni; diversamente sarebbe impossibile rispondere alla domanda generale alla base di questa sezione, ossia se la Lombardia sia una regione strutturalmente europea, oppure una regione ai margini dello sviluppo continentale.

↓ Scarica la ricerca La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda

Global minds

© AQ studio (Adam Quest), 2014

Global minds

5 Gennaio 2017

© AQ studio (Adam Quest), 2014
© AQ studio (Adam Quest), 2014
 
La realtà in cui siamo immersi è complessa e fonde in un tutto indistinto elementi temporali, spaziali, materiali, cromatici, quantitativi, acustici, olfattivi… Per renderla più comprensibile la mente umana la analizza, ossia la separa in categorie più circoscritte. Questo procedimento è alla base di molti concetti che gli esseri umani usano quotidianamente, quali i colori, i numeri, le grandezze etc. Lo stesso procedimento è all’origine delle cosiddette “discipline” con molte delle quali ciascuno tra noi familiarizza a partire dalla scuola e dall’insegnamento separato in ore di “storia” , di “geografia” , di “letteratura”, di “economia” etc. Le categorie sono pertanto indispensabili per rendere la realtà comprensibile alle nostre menti, ma la loro definizione e il loro uso implicano un’analisi critica intorno a tre grosse questioni. La prima è la necessità di riconoscerne il carattere non oggettivo. Le discipline si sforzano di trovare una propria base condivisa (l’epistemologia), ma si tratta di uno sforzo in continuo aggiornamento, non di un risultato. Nella categoria “colori” vi sono popoli che chiamano “bianco” quello che altri popoli suddividono in decine di altre categorie. Nella categoria “tempi verbali” vi sono popoli che usano una o due forme di tempo presente, altri che ne usano decine. La seconda questione, è collegata con la prima. Ogni cultura sviluppa alcune categorie di pensiero e le radica al punto tale che i singoli perdono di vista il carattere di costruzione artificiale e tendono a considerarle naturali. Un esempio tra tutti è la tendenza disgiuntiva del nostro modo di ragionare, tendenza radicatasi nel cosiddetto “Occidente” a partire dagli ultimi tre-quattro secoli. Dalla diffusione del razionalismo cartesiano in poi le menti di chi cresce in questa parte del mondo tendono automaticamente a pensare in modo “separante”. L’aut/aut, ossia il pensare che una cosa o è in un modo o altrimenti deve essere in un altro, è un tratto del nostro modo di ragionare. In realtà molto spesso caratteristiche contraddittorie o addirittura opposte possono convivere nello stesso oggetto (o soggetto), così come insegnano i grandi pensatori orientali: ciascuno tra noi può essere razionale ed emotivo, affettuoso o collerico in funzione della specifica situazione in cui si trova. Il terzo problema è il più grave ed è a sua volta collegato con il precedente. Se la nostra mente per conoscere la realtà ha bisogno di separarla in categorie, la realtà nella sua essenza è un tutto unico e inseparabile. Pertanto, dopo aver affrontato il momento dell’analisi, la nostra mente dovrebbe concludere il processo cognitivo con il momento della sintesi, attraverso il quale ridare alla realtà il suo aspetto effettivo. Ma questo solitamente non avviene. Poche persone vengono educate a pensare sia in modo analitico, sia in modo sintetico, a separare il locale dal globale, le discipline le une dalle altre, le cause dagli effetti, e poi a ricondurre a sintesi il globale, l’interdisciplinare, le retroazioni.   Il rinforzo e la penetrazione capillare del modello analitico (separatore) è stato al contempo effetto e causa del tipo di struttura sociale ed economica che si è diffusa durante i decenni dell’industrializzazione di massa. Negli anni del fordismo e del taylorismo l’organizzazione del lavoro era fortemente compartimentata: la differenza tra tempi di lavoro e tempi di vita era netta, i ruoli lavorativi rigidi e tendenzialmente invariabili, la specializzazione prevaleva sia nelle strutture sociali (la famiglia in primis), sia nelle strutture produttive. La crisi del fordismo ha modificato profondamente l’organizzazione della realtà, e il nostro modo di pensarla ha risentito dell’avvento dei mezzi digitali che permettendo l’accesso immediato a un’infinità di dati e di contatti, suggerisce un modo di pensare non lineare e chiuso, ma ipertestuale, multimediale e aperto. In questo nuovo contesto l’idea di global mind, già promossa da Edgar Morin diversi decenni fa, trova un terreno più fertile. Essere una mente globale oggi non significa solo avere conoscenze in tanti campi disciplinari diversi, significa soprattutto essere in grado di connetterle in una lettura sintetica della realtà, che osservi i fenomeni da tanti punti di vista, ma sia contemporaneamente in grado di restituire in modo organizzato il prisma che ha composto. Il valore di queste letture sintetiche è molto maggiore della somma di tante letture separate; una mente globale agisce sulle inefficienze della separazione disciplinare, traducendo i linguaggi e i sistemi di codificazione specifici delle differenti discipline, in una lettura dove i salti sono appianati e le interconnessioni rese evidenti. Questo permette ad una mente globale di essere molto più efficiente nella progettazione di nuove idee, nuove attività e nella visione di scenari futuri. Sia la progettazione, sia la visione di scenari per loro natura sono attività chiamate a confrontarsi con una quantità di variabili appartenenti a campi diversi; tradurne gli iati in ponti e armonizzare problemi eterogenei verso soluzioni logicamente orientate, è uno dei tipi di lavoro in cui le global minds possono portare maggiore valore aggiunto. La capacità di muoversi in campi differenti aumenta inoltre la capacità di innovare e di rispondere creativamente ai problemi. Il controllo di un maggior numero di attrezzi mentali e l’abitudine a ricombinarli dota infatti le global minds di un ventaglio di possibilità superiore a menti abituate a ragionare in modo strettamente disciplinare. Spesso le riflessioni provenienti dal pensiero ambientalista sono un nutrimento per le global minds. La necessità di affrontare problemi complessi e non scomponibili in laboratorio come quelli posti dall’analisi degli ecosistemi è un’ottima palestra. Non a caso l’ONU ha creato il gruppo multidisciplinare dell’IPCC per studiare il problema dei cambiamenti climatici. Non a caso “innovazione eco-sistemica” può essere la definizione per uno dei campi d’azione privilegiati per una mente globale.

La circolarità sistemica

© Inus Pretorius, The Idea Factory

3 Gennaio 2017

DI

Massimiliano Lepratti

© Inus Pretorius, The Idea Factory
© Inus Pretorius, The Idea Factory

La circolarità sistemica

L’applicazione di principi fisici ed ecologici alle discipline socio-economiche ha permesso di affinare  gli strumenti per misurare i rischi che la specie umana corre nel perseguire gli attuali metodi di produzione, trasporto e consumo. Lo Stockholm resilience center ha costruito un cruscotto per misurarli: si tratta di 9 indicatori, per ciascuno dei quali un colore semaforico indica il livello di pericolo a cui l’umanità è arrivata (il rosso indica un danno irreversibile dalle conseguenze non valutabili). Tra le molte considerazioni che il cruscotto evoca è utile ricordare che il cambiamento climatico è solo una delle variabili in gioco e che il livello di pericolo di sopravvivenza è riferito all’umanità e non al pianeta nel suo complesso (quest’ultimo è abituato a vedere scomparire specie).

In risposta a questi problemi all’inizio del decennio attuale il sistema economico ha iniziato a dare applicazione a un principio fisico estremamente razionale: poiché il nostro pianeta vive ricevendo dall’universo quantità enormi di energia (solare) e quantità pressoché nulle di materia, è molto più sensato produrre energia grazie all’infinità del sole che bruciando materia fossile limitata. Il costo calante delle tecnologie sta rendendo possibile il passaggio.
Se nel campo dell’energia le rinnovabili sono una risposta per coniugare riduzione dei danni ecologici e innovazione economica, nel campo della materia è la cosiddetta economia circolare lo strumento per produrre gli stessi impatti. La progettazione di oggetti e apparecchi destinati a non divenire rifiuti, l’utilizzo degli scarti come materia prima per nuovi cicli, la riduzione della quantità di materia per unità di ricchezza prodotta (PIL) sono tutte pratiche che contribuiscono ad evitare che la materia disponibile si trasformi in scarti ambientalmente inquinanti ed economicamente inutilizzabili.
Le capacità industriali per produrre energia e materia con processi e risultati attenti all’ecologia planetaria crescono e si diffondono rapidamente: l’edilizia adotta nuove tecniche, l’illuminazione a LED prende piede, le auto elettriche cominciano a diffondersi, la biochimica entra nella vita quotidiana con i sacchetti in mater-bi; ma in sé la somma di tanti singoli attori non garantisce che la rappresentazione raggiunga l’impatto voluto. Almeno due fattori ulteriori arricchiscono un’analisi delle tendenze produttive attuali che non voglia fermarsi agli epifenomeni. Il primo è l’effetto rimbalzo: se la quantità di impatto ecologico per unità prodotta diminuisce, ma al contempo aumenta più che proporzionalmente il numero di unità consumate, l’effetto è vanificato. Dobbiamo infatti considerare che la popolazione mondiale è destinata ad aumentare drasticamente, superando i nove miliardi nel 2050, e che ciò sarà accompagnato da un aumento della competizione per il controllo delle risorse. Il secondo fattore, più complesso, attiene agli impatti sociali. Un miglioramento del quadro ecologico non necessariamente si traduce in un miglioramento di problemi quali la disoccupazione, gli squilibri di reddito, il diseguale accesso alle risorse. Inoltre, perché le soluzioni proposte dall’economia circolare siano efficaci, oltre che efficienti, è necessario che siano accessibili e inclusive, cioè che non si traducano in soluzioni di nicchia per un mercato omogeneo e ristretto. Il problema degli scarti e delle eccedenze inutilizzate non riguarda infatti solo la materia, ma è intrinseco a tutto il sistema socio economico e ambientale.

Nella rappresentazione ideale contenuta nell’immagine qui sopra, e proposta dall’Economia Verde di Molly Scott Cato, l’economia è un subsistema – chiuso e limitato – dell’ecosistema di cui è parte integrante. Nella realtà attuale i meccanismi sono molto diversi, l’economia si percepisce come dimensione dominante e autonoma, producendo rifiuti che riversa nell’ambiente sotto forma di inquinamento (le cosiddette “esternalità”), e “scarti” che riversa nella società sotto forma di disoccupati.
Un’economia diversa potrebbe invece ispirarsi al principio ecologico della circolarità (tale per cui ogni scarto o eccedenza diviene risorsa per qualcun altro) intendendo quest’ultimo in modo sistemico, ossia come principio a cui è utile ispirare tutti i principali meccanismi legati alla produzione:

• l’economia “reale” (programmando la riduzione della produzione di scarti e riutilizzando scarti ed eccedenze come nuove materie di input);
• la finanza (minimizzando i meccanismi che creano “eccedenze” finanziarie improduttive e destinate a speculazioni, e massimizzando la circolazione della moneta a sostegno della produzione di beni e servizi ambientalmente e socialmente utili);
• i meccanismi distributivi e il mercato del lavoro (favorendo la circolazione e la migliore allocazione di ogni forma di potenziale “eccedenza”: disoccupati disponibili a impiegare la propria capacità lavorativa, risorse inutili per alcuni e utili per altri, grandi quote di ricchezza da ridistribuire socialmente…).

Un passaggio verso la circolarità sistemica non può tuttavia prodursi grazie ai soli meccanismi di mercato. Nel mercato for profit dei beni e servizi, della finanza, del lavoro ogni impresa tende ad agire per aumentare i propri vantaggi di breve e di lungo termine, e se alcune tra queste azioni possono coincidere con il benessere del sistema complessivo (come nel caso dell’adozione di tecniche produttive più ecologiche), altre non vanno nella stessa direzione (ad esempio son pochissime le imprese che riducono spontaneamente l’orario di lavoro).
Un grande cambiamento di sistema non può quindi essere prodotto senza il concorso di chi per natura svolge una funzione sistemica: gli enti pubblici e il terzo settore, accanto al mercato. Da un lato, i grandi enti pubblici (Stati nazionali, Unione europea…) possiedono la vastità di mezzi, la possibilità di investimenti a lungo termine e il potere di indirizzo dell’economia (verso la ridistribuzione di ricchezza e lavoro e verso il benessere collettivo) necessari per favorire un’innovazione di paradigma. Dall’altra, il terzo settore (imprese sociali e cooperative, associazioni di volontariato e della società civile) può garantire l’apertura dell’economia circolare alla diversità e all’inclusione sociale e, allo stesso tempo, un suo orientamento verso forme di mercato civile – in cui etica, ecologia ed economia vengono riavvicinate in modo sistemico.

 

L’innovazione tecnologica e i suoi effetti

© Harriet Lee Marrion, Invented here

L’innovazione tecnologica e i suoi effetti

29 Dicembre 2016

© Harriet Lee Marrion, Invented here
© Harriet Lee Marrion, Invented here
 

Il dibattito sull’innovazione tecnologica sembra avulso dalla società e dallo sviluppo capitalistico. Tra gli altri la materia è stata trattata dal World Economic Forum (Il futuro del lavoro) e dalla Mckinsey (Dove le macchine possono sostituire il lavoro). Il primo  affronta la così detta 4° rivoluzione industriale (Industria 4.0); il secondo indaga se e come le macchine possano sostituire il lavoro umano. La discussione è bipolare: qualcuno sostiene che le innovazioni tecnologiche siano una grande occasione per rilanciare il sistema economico; altri intravedono nel progetto il rischio di una sostituzione di lavoro umano con le macchine. L’elenco delle potenziali innovazioni tecnologiche utilizzate nei due studi sembra impressionante, ma la storia dell’economia capitalista è piena di novità – potenziali o meno – che hanno segnato il corso del come e del che cosa si produce. Freeman e Soete nel 1997 hanno proposto uno schema molto utile per rappresentare l’evoluzione storica delle meta innovazioni tecnologiche, a cui oggi si potrebbe aggiungere la green economy (se intesa correttamente, e non ridotta a mero slogan).

Il tema dell’innovazione non è un semplice problema ingegneristico – da questo punto di vista è chiaro che la tecnologia si accumula, generando sempre qualcosa di nuovo – occorre piuttosto indagarne le implicazioni economiche. Leon in Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica, e Sylos Labini in Progresso tecnico e sviluppo ciclico sono, probabilmente, i primi ad trattato l’oggetto in modo dinamico e non meccanicista.
World Economic Forum (WEF) e Mckinsey (Mc) ci informano che Industria 4.0 e le macchine modificheranno intensamente alcune tipologie di lavoro; senza usare i toni di WEF e Mc, è il caso di ricordare che questo è un tema storico-sociale e non di mera fattibilità tecnica. L’implementazione di queste tecniche infatti è 1) soggetta a molte e spesso incalcolabili variabili; 2) ha diversi gradi e livelli di realizzazione. Considerando anche la dinamica sociale e le consuetudini, l’accettazione di alcune di queste nuove tecnologie diviene cosa non scontata. Ricordiamo solo l’esempio utilizzato dalla Mc: il lavoro delle infermiere potrebbe essere sostituito dalle macchine, ma la società nel suo insieme non considererebbe queste tecniche come una tecnica superiore e le rifiuterebbe; alcune attività sono infatti ancora molto legate al contatto umano. Inoltre vi è un’altra variabile di difficile previsione: la tecnica potrebbe creare lavoro in settori limitrofi (D. Ricardo, teoria della compensazione), oppure all’opposto potrebbe non essere adottata in ragione degli alti costi di sviluppo e diffusione. I sostenitori di Industria 4.0, così come i fautori dell’introduzione di nuove tecniche di produzione, commettono un errore: indagano la tecnica come se fosse un fenomeno di pura conoscenza, dimenticando che la società cambia assieme alla tecnica senza che si possa sapere aprioristicamente come i settori produttivi coinvolti reagiranno. Cosa accadrà nei settori produttivi maturi? E in quelli emergenti? Sebbene i settori maturi saranno investiti da un cambio di paradigma senza precedenti storici, la dimensione di questi settori suggerisce prudenza nella valutazione dell’impatto delle macchine sul lavoro. Più che un effetto sostituzione di lavoro per mezzo di macchine, probabilmente ci sarà un effetto sostituzione di lavoro a basso contenuto conoscitivo con un lavoro a maggiore conoscenza incorporata. In altri termini, il numero dei lavoratori potrebbe rimanere inalterato, ma cambierebbe la natura (il “segno”) dello stesso. Se ipotizzassimo di applicare le nuove tecnologie nell’attuale (vecchio) paradigma, il saldo tra nuovo lavoro e vecchio lavoro sarebbe certamente negativo; ma il capitale evolve e cambia assieme alla società. Il sistema economico non rimane mai uguale a stesso, cambiano le consuetudini e le abitudini: l’emergere di una nuova classe media (WEF) in accordo con la legge di Engel modificherà i consumi, ma WEF e Mc, sembrano non conoscere gli effetti sui consumi legati alla crescita del reddito. Il processo è bidirezionale e non unidirezionale e la politica economica e industriale vi hanno un ruolo fondamentale, mentre la robotica è solo un pezzo del tema. Stiamo attraversando una grande transizione e l’esito è incerto perché non riducibile alla somma di tanti microelementi (il reddito stesso non può essere spiegato come mera somma dei comportamenti individuali).
Viviamo dentro la storia e non dentro un mero ciclo economico, ma i mainstream di diversa declinazione non l’hanno ancora capito.